Quella che vi proponiamo di seguito è una bellissima testimonianza sull’allattamento al seno scritta sul sito inglese InCultureParent, da J. Claire K. Niala, una mamma e osteopata keniota ma inglese d’adozione. L’articolo è stato ripreso dal sito italiano Genitorichannel.it e tradotto da Barbara Siliquini.
Claire racconta la sua esperienza di mamma nei primi sei mesi di vita della sua bambina alla riscoperta della vecchia  saggezza affidata all’intuito materno.

L’autrice J. Claire K. Niala è un osteopata che ha lavorato e vissuto in tre continenti ed ha visitato almeno un paese nuovo ogni anno, da quando aveva 12 anni. I suoi compagni di viaggio preferiti sono la madre e la figlia, le cui storie e interesse per chi le circonda hanno portato Claire a scoprire ed interagire con il mondo in modi che non avrebbe mai immaginato.

Sono nata e cresciuta in Kenya e Costa d’Avorio fino all’età di 15 anni, poi mi sono trasferita nel Regno Unito. Tuttavia, ho sempre saputo che volevo crescere i miei figli (quando li avrei avuti) a casa in Kenya. Sì, davo per scontato che li avrei avuti. Sono una donna africana moderna: con due lauree, appartengo alla quarta generazione di donne che lavorano, nella mia famiglia,ma quando si tratta di bambini, sono un’africana tradizionale.
Rimane in me la convinzione che la vita non sia completa senza figli e che i bambini sono una benedizione a cui è da folli rinunciare. Anzi, non avere figli non è neppure preso in considerazione.
La mia gravidanza iniziò nel Regno Unito. Con la gravidanza arrivò una tale spinta a tornare a casa, che al quinto mese avevo già venduto il mio studio, messo a punto una nuova attività, cambiato casa e continente. Quando mi scoprii in attesa feci quello che la maggior parte donne incinte nel Regno Unito avrebbe fatto, divoravo libri: Our Babies, Ourselves, Amarli senza se e senza ma, tutti i libri di W. Sears e l’elenco potrebbe continuare. (Mia nonna poi commentò che i bambini non leggono libri e che tutto quello che dovevo fare era “leggere” il mio bambino). Tutto quello che leggevo diceva che i bambini africani piangono meno dei bambini europei. Questo mi incuriosì molto, volevo scoprire perché.

Una volta a casa, in Kenia, mi misi ad osservare. Tendevo lo sguardo per vedere madri e bambini, ed erano ovunque, anche se i neonati africani sotto al mese e mezzo di vita rimanevano per lo più a casa. La prima cosa che notai fu che, nonostante la loro ubiquità, era in realtà molto difficile “vedere” davvero un neonato keniano. Di solito sono incredibilmente ben avviluppati, prima di essere portati in braccio o fasciati sulla loro mamma (a volte il papà). Anche i più grandini, fasciati sulla schiena degli adulti, vengono ulteriormente protetti dall’esterno da un telo di grandi dimensioni. Saresti già fortunato a scorgere un arto, figuriamoci un occhietto o il naso. Il modo in cui vengono fasciati è come la replica di un utero. I bambini sono letteralmente imbozzolati in modo da essere protetti dallo stress del mondo esterno in cui sono giunti.

La seconda osservazione che fu chiara era legata ad una differenza culturale. Nel Regno Unito è dato per assunto che i bambini piangano, il pianto è connaturato al bambino. In Kenya, è esattamente il contrario: è dato per assunto che i bambini non piangono. Se lo fanno è segno di qualcosa di terribilmente sbagliato e occorre agire immediatamente per porre rimedio, rimuovere la causa. Mia cognata inglese una volta disse: “Alla gente qui non piace proprio che i bambini piangano, vero?”. Trovai che la sua osservazione riassumeva proprio bene questa differenza.

Tutto diventò molto più chiaro quando finalmente partorii e arrivò mia nonna dal villaggio a trovarmi. In effetti la mia bambina piangeva abbastanza spesso. Esasperata e stanca, dimenticai tutto quello che avevo mai letto e, a volte volevo piangere con lei. Ma per mia nonna era molto semplice: “Nyonyo!”, “Dalle il tuo seno!”, era la sua risposta ad ogni singolo vagito. C’erano momenti in cui era un pannolino bagnato, oppure in cui voleva venire in braccio, o aveva bisogno di fare un ruttino, ma per lo più voleva solo stare al seno – e non importava se voleva mangiare o se aveva solo bisogno di un momento di conforto. La indossavo, in fascia, praticamente sempre e facevamo co-sleeping (dormivamo insieme) così portarla spesso al seno era una naturale estensione di quello che già facevamo.



All’improvviso mi fu chiaro il segreto non così nascosto del silenzio gioioso di bambini africani.  Si trattava di una simbiosi fatta per soddisfare i bisogni. Una cosa che richiedeva una sospensione totale dell’idea di ciò che sarebbe dovuto essere, sostituita dall’accoglienza, senza condizionamenti, di ciò che stava realmente accadendo in quel momento. Il risultato era che mia figlia poppava molto – molto più di quanto avessi mai letto e almeno cinque volte tanto quanto previsto da alcuni dei più rigorosi schemi di poppate che avevo visto.

A circa quattro mesi, quando un sacco di mamme di città iniziano ad introdurre i cibi solidi nel rispetto degli schemi di svezzamento, mia figlia tornò a un ritmo di suzione da neonato: la allattavo ogni ora, fu uno shock totale. Negli ultimi quattro mesi, il tempo tra le poppate aveva cominciato ad aumentare, fino a consentirmi di ricominciare a trattare qualche paziente senza che i miei seni perdessero latte o che la baby-sitter interrompesse la seduta perché la bimba aveva bisogno di una poppata.

La maggior parte delle mamme, nel gruppo madri-neonati che frequentavo, aveva diligentemente iniziato a introdurre la crema di riso (per allungare il tempo fra le poppate) e tutti i professionisti coinvolti nella vita dei nostri figli – pediatri, anche doule, dicevano che andava bene: le mamme avevano bisogno di riposo, avevamo già fatto davvero tanto arrivando a quattro mesi di allattamento esclusivo al seno. Ci assicurarono che i nostri bambini sarebbero stati bene. Tuttavia dentro di me sentivo qualcosa di stonato in questo, e anche quando provai, senza troppa convinzione, a mescolare un po’ di papaia (il cibo tradizionale per lo svezzamento in Kenya) con del latte in polvere e lo offrii a mia figlia, lei non ne prese neanche un po’.

Così chiamai mia nonna. Lei si mise a ridere e mi chiese se avevo ricominciato a leggere libri. Mi spiegò che l’allattamento al seno è tutt’altro che lineare.
“Ti dirà lei quando sarà pronta per il cibo – anche il suo corpo te lo dirà.”
“Che cosa faccio fino ad allora?” chiesi ansiosa.
“Fai quello che hai fatto fin’ora, semplicemente nyonyo”. Così la mia vita rallentò di nuovo praticamente fermandosi.

Mentre molti dei miei coetanei rimanevano meravigliati di come i loro figli dormivano più a lungo ora che avevano introdotto le creme di riso e addirittura si avventuravano su altri alimenti, io mi svegliavo ogni due ore con mia figlia e informavo i pazienti che il ritorno al lavoro non sarebbe stato come avevo previsto.

Presto scoprii che mi stavo trasformando, del tutto involontariamente, in un servizio di sostegno informale per altre mamme di città. Il mio numero di telefono cominciò a girare fra le mamme e spesso, mentre allattavo la mia bimba mi sentivo pronunciare le parole: “Sì, continua ad allattarlo. Sì, anche se lo hai appena allattato. Sì, succede che non riesci a trovare il tempo di toglierti il pigiama in tutta la giornata. Sì, hai bisogno di mangiare e bere come un cavallo. No, non è il caso di prendere in considerazione di tornare al lavoro se ti puoi permettere di non farlo.”
Infine, rassicuravo le mamme: “Stai tranquilla, poi diventa più facile.” Su quest’ultima frase facevo una professione di fede, visto che per me le cose non erano ancora diventate più facili.
Una settimana prima che la mia bimba compisse cinque mesi, tornammo in Inghilterra per un matrimonio e per presentarla a familiari e amici. Non avevo particolari esigenze e così fu semplice continuare a seguire i suoi schemi di poppata. Andavo avanti, nonostante gli sguardi sconcertati di molti stranieri per il fatto che allattavo mia figlia in luoghi pubblici vari (molti “spazi allattamento” in luoghi pubblici erano relegati nei bagni, e non riuscivo proprio ad usarli).

Al matrimonio, a tavola, le persone vicine a noi osservarono: “che bimba tanquilla – certo che l’allatti ancora tanto”. Non dissi nulla, ma quando un’altra signora commentò: “anche se ho letto da qualche parte che i bambini africani non piangono quasi mai”. Non potei trattenere una bella risata.

La cosa più importante che mi ha guidato è stata la saggezza dolce di mia nonna:

  1. Offrile il seno ogni singola volta in cui la bimba ha qualcosa che non va – anche se lo hai appena fatto.
  2. Dormi insieme a lei (co-sleeping). Così puoi allattarla prima che lei si svegli del tutto e questo le consentirà di tornare a dormire più facilmente e potrai riposare di più.
  3. Portare sempre con te una bottiglia di acqua la sera: per mantenerti idratata e far scorrere il latte.
  4. Fai dell’allattamento la tua priorità (in particolare durante gli scatti di crescita) e prendi da quelli intorno a te tutto l’aiuto che puoi. E ricorda: c’è ben poco che non possa attendere.

Leggi il tuo bambino, non i libri. L’allattamento al seno non è lineare – va su e giù o è circolare. E ricorda: sei tu l’esperta dei bisogni di tua figlia.

Ps. L’immagine che vedete è un quadro di un artista senegalese che lavora sulla spiaggia di Torre Lapillo, a Porto Cesareo, realizzato con diversi tipi di sabbia del Senegal. Questo è un ragazzo che non riesce ad avere un permesso di soggiorno definitivo perché è ovviamente impossibile assumere a tempo indeterminato un artista!!

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