Ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, neurologo specializzato sugli aspetti legati alle malattie neurodegenerative, esperto di epidemiologia clinica, ossia dell’applicazione della medicina basata sulle evidenze nella pratica clinica quotidiana, con particolare attenzione verso la validazione degli strumenti e della loro attendibilità nella pratica clinica corretta. Tutto questo è il prof. Nicola Vanacore, da diversi anni vicino all’Osteopatia e impegnato con la commissione ricerca del Roi nella promozione della ricerca scientifica in ambito osteopatico attraverso corsi di formazione.
Abbiamo cercato di chiarire perché questo sia così importante per la disciplina osteopatica e per il suo consolidamento. Lo abbiamo intervistato in occasione del corso “La ricerca clinica in osteopatia” in cui Vanacore è stato relatore, tenuto lo scorso febbraio a Bari, nella scuola ATSAI.

Quando ha incontrato l’osteopatia?
Circa 8 anni fa quando Marco Petracca, che è stato mio discente nella specialistica della riabilitazione, mi ha invitato a fare un seminario sulla “medicina basata sull’evidenza” nella scuola di osteopatia CERDO.

Cosa c’entra Nicola Vanacore con l’Osteopatia?
Se pensiamo al mondo variegato dell’osteopatia degli ultimi anni in cui – grazie soprattutto all’impulso della comunità osteopatica americana – stiamo assistendo ad un incremento della produzione scientifica, è assolutamente importante capire come un articolo scientifico possa essere messo in relazione con la pratica clinica sul singolo paziente. L’articolo scientifico rappresenta infatti la sintesi delle evidenze di un determinato tema, e meglio di qualunque altro mezzo è atto a spiegare il legame che esiste tra il singolo paziente ed un operatore sanitario.
Mi ha fatto piacere vedere che nel mondo osteopatico sia così viva l’attenzione per la ricerca, anche se vi sono ancora delle carenze in molte aree, ed anche in Italia.

Qual è la situazione della ricerca scientifica osteopatica in Italia?
Si potrebbe fare molto, ma molto di più; bisognerebbe avere più un approccio di sistema. C’è una scuola tra quelle del Roi in cui questa attività è strutturata ed organizzata – tant’è che i risultati si vedono nella produzione scientifica – mentre invece tutte le altre scuole non hanno questa visione organizzata per questo fine. Questi corsi che da 4 anni facciamo col gruppo ricerca del Roi, ed organizzati da Marco Petracca, hanno proprio questa finalità, quella di stimolare la produzione della ricerca scientifica in termini di quantità e qualità.



Perché per l’osteopatia è importante produrre più ricerche scientifiche?
E’ essenziale per superare una visione dell’efficacia del trattamento in maniera “occhio metrica”. Il primo passaggio è utilizzare scale validate nella pratica clinica corrente. Il vantaggio che ogni osteopata conseguirebbe dall’utilizzo di queste scale è l’ottenimento di informazioni sintetiche della casistica che lui segue.

Quali invece i benefici per i pazienti?
Il beneficio è misurabile in termini di valutazione degli esiti del trattamento; sono applicate delle regole riconosciute, trasparenza, poca influenza soggettiva dell’operatore. La scala aiuta a mantenere un atteggiamento oggettivo verso il paziente.

Quali gli strumenti utilizzabili?
Sicuramente la scala sul dolore VAS (ha 10 items), poi i questionari sulla qualità della vita – per esempio l’SF36 raccomandata dall’OMS in tutte le patologie -; sono inoltre utili le scale specifiche sulle patologie sulle quali si interviene. Se per esempio un osteopata interviene sulla cefalea, si prenderà in considerazione una scala sulla disabilità indotta dalla cefalea, per esempio la MIDAS. E’ importante che quando l’osteopata tratta una persona con una determinata patologia vi sia una conoscenza delle scale che vengono usate in quello specifico ambito.
Usare una scala significa condivisione delle conoscenze e apertura al confronto con altri esperti, avere una visione più oggettiva di come l’intervento osteopatico stia o non stia influendo sulla storia della malattia.

Che idea si è fatto circa la possibilità del riconoscimento dell’Osteopatia come professione sanitaria?
Io guardo semplicemente quanto accade negli altri Paesi; penso agli Stati Uniti o alla Francia dove l’osteopata è riconosciuto professionista sanitario, esiste la linea guida OMS specificatamente sulla formazione in ambito osteopatico dove è peraltro riservata grande attenzione alla metodologia della ricerca, ai temi dell’epidemiologia, proprio perché il professionista osteopata deve essere formato anche su questi aspetti. La cosa più importante è che non ci siano più differenze tra paesi, e che quindi si sviluppi almeno una visione europeista, se non mondiale, in modo che il professionista osteopata possa essere considerato alla stessa stregua degli altri paesi.

Come è vista l’Osteopatia dal Sistema Sanitario Nazionale?
Il Sistema è ancora molto confuso, ed è uno dei problemi delle professioni sanitarie. Bisogna capire bene quali siano le specificità delle professioni, capire cosa fa il fisioterapista in più o di diverso rispetto ad un terapista occupazionale o un tecnico della psicomotricità dell’età evolutiva; o ancora cosa distingue un’attività logopedica rispetto a quella di un terapista occupazionale. Bisognerebbe decidere “chi fa che cosa” e quali siano le competenze specifiche. In questo ambito sarebbe interessante capire quanti italiani sono trattati dagli osteopati e quante visite osteopatiche si espletano.
Ricordo che negli USA nella primary care, quindi nella organizzazione sanitaria di primo livello, 210 milioni di americani fanno ricorso all’osteopatia.