EBM o non EBM? Questo è il dilemma. Una discussione ormai vecchia quanto Cartesio stesso e da quando il metodo scientifico è cominciato ad entrare ufficialmente in medicina1. La medicina basata sull’evidenza è diventata rapidamente lo standard di riferimento per le decisioni cliniche, a tal punto da portare alcune istituzioni sanitarie ad intimare radiazione dall’albo per tutti coloro che tentino di violarne i principi.

Anche la stessa comunità osteopatica sembra essere stata chiamata ad un agrodolce confronto con questa tematica, un aspetto che ha creato non poche divisioni: accettare e farsi plasmare dall’EBM o rifiutare la fredda statistica clinica, conservando così inalterate le proprie radici? Osteopatia aggiornata ed evoluta o osteopatia pura e conservazionista?
Domande dalla risposta non scontata e che hanno generato a loro volta ulteriori dilemmi: È giusto accettare tutto come dogma anche lì dove i dati sembrano carenti? Come rapportarsi con il vitalismo e la spiritualità di cui l’osteopatia delle origini era intrisa? O ancora, nella medicina in cui esiste solo ciò che può essere misurato, come comportarsi di fronte a fenomeni per i quali non possediamo ancora strumenti di misurazione adeguati? Il non sapere cosa e dove misurare, rende un fenomeno percepibile inesistente? Ed infine, l’oggettiva necessità di rielaborazione delle ricerche osteopatiche, secondo criteri più adeguati, rende la medicina osteopatica meno affidabile?

Sicuramente non siamo più nel 1800 e da allora tanto è cambiato, siamo nell’era della medicina che evolve e siamo in attesa di azioni politiche che inseriscano fattivamente la nostra professione in ambito sanitario ed universitario. Per citare le parole espresse da Andrea Manzotti nel 3° congresso nazionale ROI (Roma, 2017) “stiamo bussando alla porta di una casa che è già occupata da altri” ed in un contesto del genere urge un confronto con tematiche precise e diventa necessario gettare ponti con le altre figure del panorama sanitario.

Osteopatia, scienza ed EBM: cosa emerge dalla letteratura

Recentemente sono sorti diversi confronti fra personaggi autorevoli dello scenario osteopatico internazionale e potrebbe essere interessante analizzare e confrontarsi su quanto sia stato scritto in merito. In letteratura non mancano interventi di diversi “opinion leader” del settore e sono consultabili diversi “scontri epistolari” apparsi di recente nell’editoriale del “The Journal of American Osteopathic Association”.

In concreto, quali sono state le posizioni espresse dagli autori?

Danto JB: passare dall’EBM alla EBOM

Il ricercatore osteopata Danto JB, in una lettera a JAOA2, ha esordito esprimendo la propria visione: nonostante l’EBM non sia del tutto compatibile con filosofia osteopatica e nonostante la medicina osteopatica si scosti molto dalla medicina allopatica, resta comunque necessario applicare la nostra filosofia alle prove. Proprio a causa di queste diversità si potrebbe dar vita ad un preciso filone parallelo, ovvero, la “medicina osteopatica basata sull’evidenza” (EBOM).
Secondo Danto, infatti, la differenza fondamentale fra EBOM ed EMB risiederebbe nella tematica centrale di ottimizzazione (o potenziamento) dello stato di salute. Questo aspetto mancherebbe da lungo tempo nella EMB e non riguarderebbe tanto le strategie di cura, quanto le politiche di prevenzione e l’indipendenza/responsabilità del paziente verso la propria salute. Da questo punto di vista, l’osteopatia potrebbe aggiungere qualcosa in più alla medicina moderna e rimanere, se pur in modalità alternativa, unita ed in linea con l’incedere della medicina, allargando la visione sul corpo umano e sull’individuo.

JD Parker e il dilemma di una osteopatia che sa contare solo fino ad uno

In una lettera all’editore del 20143, il clinico Parker JD (DO, MS, Department of Family Medicine at Shoals Hospital, Alabama) ha espresso chiaramente la propria posizione in merito alle difficoltà emerse dal complicato rapporto EBM-Osteopatia. Le critiche riportate nella lettera di Parker diventano, senza volerlo, il primum movens di una serie di risposte editoriali che hanno generato una serie di correzioni, assensi e scontri con altri colleghi.
Nell’editoriale, l’autore asserisce che non si deve commettere l’errore di considerare l’EBM come l’unica forma di ricerca possibile e come unica modalità dell’utilizzo dei dati, due aspetti che possono influenzare il processo decisionale clinico. A tale scopo l’autore riporta 5 contenuti di critica all’EBM precedentemente elaborati dai ricercatori Cohen e Hersh4 , ovvero:



  1. Il problema filosofico dell’empirismo come fondamento scientifico della conoscenza;
  2. La “gerarchia delle evidenze” la quale, inevitabilmente, porterebbe all’esclusione di alcune possibili informazioni, importanti per il processo decisionale clinico;
  3. La mancanza di prove a sostegno dell’EBM, causando paradossalmente un rompicapo secondo il quale la stessa EBM non risulti coerente ai suoi stessi principi di verificabilità;
  4. La limitata possibilità di utilizzare l’EBM sul singolo paziente;
  5. La ridotta autonomia nella relazione medico-paziente.

Inoltre, Parker riporta l’urgenza di mantenere inalterati i 4 principi che hanno caratterizzato, fin dalle origini, la medicina osteopatica e successivamente ribaditi nel 2008 dall’American Osteopathic Association5:

  1. Il corpo è un’unità
  2. Il corpo è in grado di autoregolarsi, autorigenerarsi e mantenersi in salute
  3. Struttura e funzione sono interconnessi
  4. Il trattamento razionale si basa sulla comprensione dei principi di base sull’unità del corpo, sull’autoregolazione e l’interrelazione tra struttura e funzione.

Questi quattro principi, considerati il cardine dell’osteopatia, sono stati schematizzati in ulteriori tre punti da Rogers FJ et al. (2002)6, ovvero:

  1. Il paziente dovrebbe essere sempre al centro dell’assistenza sanitaria;
  2. Il paziente dovrebbe avere una primaria responsabilità sulla propria salute;
  3. Un programma di trattamento efficace dovrebbe basarsi sui principi precedentemente proposti.

Secondo l’autore, questa centralità attribuita al paziente, getterebbe una prima linea di demarcazione fra medicina osteopatica ed allopatia. Una distinzione che, a detta di altri7, rischia di essere solo apparente: l’assistenza centrata sulla persona, infatti, è stata adottata oramai anche dalla nostra controparte allopatica, mentre, in termini di prevalenza statistica, la medicina manuale osteopatica viene utilizzata in maniera notevolmente ridotta rispetto alle metodiche allopatiche, creando una mancanza quantitativa di prove.
Ed è proprio qui che Parker insiste nell’asserire un secondo grande divario tra filosofia osteopatica ed EBM: la statistica. Nella EBM, infatti, le revisioni sistematiche e le meta-analisi rappresentano i più alti livelli di evidenza e viene quindi considerato centrale, per il processo decisionale clinico, lo studio rischio-beneficio basato su osservazioni in grandi popolazioni di individui. Nella Medicina osteopatica, invece, viene messo il singolo paziente al centro del processo decisionale clinico e non esiste una garanzia che, una decisione clinica utile per la maggior parte le persone, sia necessariamente la migliore per il singolo paziente. Di conseguenza, nella migliore delle ipotesi, l’EBM potrebbe offrire a un medico la migliore decisione per il più grande numero di persone, a differenza dell’osteopatia che, per sua natura, sa e deve continuare a contare solo fino ad “uno”.
Da qui in poi, quali sono state le principali reazioni dei colleghi di Parker JD?

Noll DR: nessun paradosso con l’EBM, solo pochi fondi per una ricerca di qualità

A proseguire il discorso dell’autore, troviamo Noll DR8 (Rowan University School of Osteopathic Medicine, Stratford, New Jersey). Quest’ultimo, dopo aver letto la lettera redatta dal collega, risponde all’editoriale sottolineando i limiti e punti di forza delle tesi esposte da Parker ed esprime una propria personale opinione.

Secondo Noll, il principale punto debole dell’editoriale di Parker ruoterebbe intorno ad una scorretta definizione di medicina basata sull’evidenza, chiarificabile mediante la consultazione della descrizione ufficiale pubblicata su JAMA nel 19929 e da Sackett DL et al. nel 199610.
In queste pubblicazioni, infatti, è chiaramente dichiarato come la medicina basata sull’evidenza sia “una medicina in cui si fa un uso coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori prove esistenti al fine di garantire le migliori decisioni cliniche volte alla cura del singolo paziente e dove c’è posto sia per la competenza clinica individuale sia per i dati […] L’evidenza clinica esterna, infatti, può informare ma non sostituire l’esperienza clinica individuale ed è questa competenza che decide se l’evidenza esterna può applicarsi al singolo paziente ed essere integrata in una decisione clinica”.
Secondo quanto riportato, di conseguenza, non sarebbe possibile limitare la EBM a meri studi clinici randomizzati e meta-analisi. Inoltre, come riportato in un suo precedente intervento11, l’autore asserisce che l’assioma osteopatico di Still A.T. “Trattate ciò che trovate”, sia totalmente compatibile con questa visione di medicina basata sull’evidenza, così come può esserci compatibilità con l’atteggiamento osteopatico di analisi critica dei dati e con l’applicazione, sul singolo individuo, dei suggerimenti estrapolati dalla letteratura.
Secondo Noll, quindi, il concetto originario di medicina basata sull’evidenza non entrerebbe in conflitto né con l’assistenza centrata sulla persona né con la pratica osteopatica. Inoltre l’autore aggiunge che, per quanto l’assistenza centrata sulla persona sia stata integrata oggigiorno nella medicina allopatica, il modo di prendersi cura del paziente non potrà mai essere identico fra le due discipline. L’osteopatia, quindi, non rischia di cadere vittima degli standard rigorosi della EBM; l’unico vero pericolo potrebbe derivare da una errata applicazione dell’EBM e dalla incapacità, da parte delle istituzioni osteopatiche, di attingere ad adeguati finanziamenti per la ricerca.

Lucich JA e l’utilità della Medicina Basata sull’Evidenza in Osteopatia

Anche il medico Lucich JA12, dopo aver letto l’editoriale di Parker e di Danto, si è inserito nel contesto epistolare su JAOA. Luchic JA è un professore associato del dipartimento di medicina interna del Marian University College of Osteopathic Medicine ed è dedito da anni all’insegnamento della medicina basata sull’evidenza.
L’autore ribatte immediatamente che la preoccupazione di Danto in merito alla concordanza e la compatibilità della pratica EBM con la filosofia osteopatica, non sia totalmente giustificata, così come non è totalmente vero che l’EBM non integri principi tipici della filosofia osteopatica, quali, il potenziamento dello stato di salute e la responsabilità personale del paziente verso la propria salute.
L’autore, inoltre, rifacendosi alla propria esperienza personale, puntualizza punto per punto l’elenco riportato da Parker nell’editoriale del 2014, ovvero:

  1. Le basi problematiche dell’empirismo come fondamento dell’EBM: Sebbene l’empirismo (dottrina secondo la quale tutta la conoscenza derivi dall’esperienza dei sensi) non sia l’unico percorso verso la conoscenza, nell’EBM si delineano conoscenze e prove che possono produrre risultati tangibili. Qualora un risultato medico non dovesse essere “rilevato” dai nostri pazienti o riconosciuto attraverso valutazioni di laboratorio, dovrebbe essere messo in discussione il valore delle conoscenze che hanno prodotto i suddetti risultati. Pertanto, sembra antitetico criticare le basi empiriche dell’EBM.
  2. La definizione di evidenza, all’interno dell’EBM, è limitata ed esclude informazioni importanti per il processo decisionale clinico: Piuttosto che escludere prove o informazioni, l’EBM fornisce metodi per valutare la probabile validità, l’importanza e l’applicabilità di qualsiasi forma di prova. Pertanto, prendere decisioni basate su prove di dubbia qualità potrebbe essere facilmente evitato. Resta comunque possibili confutare o rivisitare le decisioni in caso di prove più recenti, migliori ed affidabili.
  3. La medicina basata sull’evidenza non è “basata sull’evidenza” perché non soddisfa i propri criteri di efficacia: secondo Lucich, le basi filosofiche dell’EBM portano ad accettare l’idea secondo cui l’universo funziona in modo prevedibile e con leggi sottostanti. Di conseguenza, se uno stimolo è in grado di produrre un certo risultato in determinate circostanze, secondo le stesse leggi di prevedibilità, sarà possibile ottenere lo stesso risultato anche in seguito a successive somministrazioni dello stimolo indagato.
  4. L’utilità di applicare EBM al singolo paziente ha i suo limiti: Parker sostiene che la vera divisione tra la filosofia osteopatica e l’EBM sia la statistica, e che la medicina basata sull’evidenza sia una medicina basata sulla popolazione e con approccio matematico, al contrario dell’osteopatia che pone al centro la singolarità del paziente. Lucich controbatte rispondendo che questa visione genererebbe problematiche medico legali, nonché procedurali, troppo complesse per la gestione quotidiana dei pazienti, infatti, “se ogni paziente è così unico da rendere le informazioni basate sulla popolazione non applicabili, come sarebbe possibile identificare i criteri di normalità e anormalità fra persone? Come dovrebbero comportarsi i medici di fronte ad ogni paziente?”
  5. La ridotta autonomia nella relazione medico-paziente: in questo punto subentra un’ulteriore problematica per cui potrebbe essere necessario il supporto di dati oggettivi. Infatti sia il medico, sia il paziente, potrebbero cadere nell’errore secondo il quale il proprio giudizio personale o la propria idea diventino l’unico criterio per eseguire o richiedere azioni di assistenza medica. A tale scopo, accogliere alcune componenti chiave della pratica dell’EBM, quali lo scetticismo e la valutazione critica dei dati, non potrebbe che contribuire alla corretta assistenza medica.

Bruno Bordoni, i benefici ed i limiti dell’EMB/EBP in Osteopatia

Anche nel nostro territorio non sono mancate opinioni in merito. Nel 2019, il ricercatore osteopata Bruno Bordoni ha pubblicato su Cureus13 un testo il cui fine era esaminare, con onestà intellettuale, i vantaggi ed i limiti della EBP/EBM in campo osteopatico. L’autore riporta infatti “che la conoscenza, sia teorica che pratica, è in continua evoluzione e non dobbiamo fermarci a quello che sembra essere un dogma. La scienza e la conoscenza sono in continua evoluzione e, pertanto, dobbiamo sempre studiare e aggiornarci”.
Anche secondo Bordoni, creare contesti in cui si faccia un corretto ed equilibrato uso di ricerca scientifica, esperienza dell’operatore ed esperienza del paziente, potrebbe giovare alla pratica osteopatica. La pratica basata sull’evidenza (EBP), infatti, ha un fine be preciso, ovvero, ricercare le migliori strategie cliniche-pratiche e delineare le migliori linee guida. Questa modalità di incedere clinico si basa su sei passaggi (assistenza centrata sul paziente, raggiungimento della soluzione terapeutica mediante lavoro multidisciplinare, considerazioni della letteratura scientifica, miglioramento della qualità terapeutica, evoluzione clinica ed uso della tecnologia per l’aggiornamento continuo) ed ha permesso più volte, in passato, di affermare la positività del trattamento osteopatico. Attualmente abbiamo diverse prove su come l’osteopatia possa positivamente intervenire nel dolore somatico, ridurre i tempi di dimissione ospedaliera in alcune tipologie di pazienti (neonati, pazienti cardiologici ed anziani affetti da polmonite), possa indurre un miglioramento della qualità della vita nelle donne in gravidanza, incida sintomatologicamente sui problemi prostatici ed intestinali ed esplichi una riduzione generale delle citochine pro-infiammatorie sistemiche.
D’altro canto, l’EBP non è sempre applicabile al caso specifico, così come le nozioni emergenti non sono sempre adatte ad ogni tipo di disfunzione che troviamo sui pazienti. Effettivamente, se da una parte l’EBP affronta un’area o una patologia ben precisa, nella vita di tutti i giorni, i pazienti che si rivolgono all’osteopata presentano spesso disturbi sovrapposti e comorbidità. L’EBP è quindi sicuramente una risorsa importante per l’approccio manuale, ma resta comunque uno strumento che deve essere utilizzato in base alle esigenze del paziente e ponderando le informazioni scientifiche in rapporto all’esperienza dell’operatore e al feedback fornito dal paziente.
Nonostante i risultati in letteratura non includano tutte le tipologie di pazienti, anche dei semplici case report potrebbero essere importanti per comprendere e migliorare la pratica osteopatica quotidiana. Lo stesso dicasi per le revisioni, dove vengono evidenziati alcuni aspetti pratici e spunti di riflessione, e per gli articoli, in cui vengono discusse nuove ipotesi di trattamento ed idee utili alla clinica quotidiana.
In fondo non siamo infallibili nella nostra metodica, né esonerati dalla necessità di aggiornamento. A tale scopo, l’autore concretizza questa realtà con alcune brucianti domande, come ad esempio, perché continuare ad affermare ed accontentarci dell’idea che il movimento respiratorio primario derivi da un movimento della sincondrosi sfeno-basilare, quando l’articolazione fra occipite e sfenoide tende a saldarsi già a 12 anni? Oppure, perché trattare il diaframma a livello esclusivamente costale quando vi è un’oggettiva innervazione vagale e frenica?

Il clinico osteopata deve essere quindi in grado di estrapolare le informazioni utili per migliorare il risultato salutogenico del paziente, alla luce della propria esperienza e del bisogno soggettivo della persona curata, mentre la letteratura dovrebbe essere presa come uno stimolo costante per l’aggiornamento, più che un dogma inviolabile.

Pionierismo e limiti moderni dell’osteopatia: il provocante articolo di Esteves JE et Al. (2020)

Sulla falsariga di Bordoni B, si inserisce un articolo interessantissimo di Jorge E. Esteves (2020)1144, redatto insieme ed altri personaggi decisamente conosciuti nella scena osteopatica internazionale: Rafael Zagarra-Parodi, Patrick van Dun, Paul Vaucher e il più che mai presente Francesco Cerritelli.
Gli autori si inseriscono nel discorso puntando con eleganza ed esperienza ad accendere nuovi fuochi interiori e sottolineando sicuramente la valenza pioneristica dell’osteopatia, ma anche la necessità di un’evoluzione.
Come riportato dagli autori, l’osteopatia possiede una propria identità e in questi casi si è soliti difendere l’originalità e la rilevanza di modelli terapeutici che hanno contraddistinto la professione sin dalle origini. Storicamente, l’approccio ha avuto grande successo grazie all’innovatività espressa nei suoi primi 100 anni: durante questo periodo, infatti, sono stati anticipati concetti che sarebbero diventati centrali nelle discipline sanitarie nel 21 ° secolo (in particolare l’assistenza centrata sulla persona).
Grazie a questo ruolo pionieristico ed anticipatorio, alcune delle basi concettuali della professione non sono rimaste esclusive della disciplina osteopatica, ma sono state progressivamente incorporate in tutto il campo medico e raccomandate come “best practice”. Ad esempio, nel caso specifico della cura muscolo-scheletrica, è più che raccomandata la necessità di andare oltre la concezione del corpo diviso in regioni ed abbracciare in pieno un approccio centrato sulla persona.
Eppure, nonostante l’iniziale spirito avanguardista, l’osteopatia sembra ancora “impantanata” su approcci metodologici diffusi e limitati, basti pensare alla centralità data al tema della disfunzione somatica. In effetti, molti considerano la disfunzione somatica come un’entità clinica rilevante e si concentrano su diversi modi per intercettare segni strutturali “oggettivi” che spieghino i sintomi del paziente. Questa visione ha portato ad un’idea malsana, nonché semplicistica, secondo la quale una semplice manipolazione dei parametri alterati possa ripristinare funzionalità e salute. Sotto questo aspetto, il concetto di disfunzione somatica si riduce ad un modello di cura estremamente lineare ed implicante spiegazioni esclusivamente strutturali del dolore.
Per quanto questa causalità sia clinicamente attrattiva, il comportamento umano è intrinsecamente complesso ed è influenzato da molteplici di fattori, ragion per cui, cercare di stabilire una causalità clinica nella complessità diviene estremamente complicato, soprattutto se ci si orienta con modelli mancanti di una valida integrazione delle dimensioni psico-sociale della persona. Effettivamente, studiosi ed accademici del settore stanno esprimendo apertamente le loro difficoltà a comprendere, spiegare, difendere e giustificare modelli ritenuti centrali nella cura osteopatica.
Sicuramente, queste (ed altre) saranno alcune delle sfide che la ricerca osteopatica e la formazione accademica dovranno imparare a gestire ed affrontare con atteggiamento critico e costruttivo.
In questi anni stanno emergendo aspetti importantissimi per l’assistenza sanitaria e che la ricerca osteopatica solo da poco ha iniziato a studiare ed incorporare: le interazione medico-persona, il tocco affettivo, l’interocezione, la contestualizzazione ed il placebo. Nella recente teoria enattiva della cognitività, ad esempio, il sintomo dolore viene considerato come un epifenomeno emergente dal rapporto relazionale fra corpo “vissuto” ed ambiente. In questo modello, più che gli aspetti biologici del dolore, viene contemplata l’integrazione degli input sensoriali con vissuti precedenti e segnali contestuali. Un approccio fenomenologico simile, avrebbe di conseguenza poco a che fare con semplici parametri strutturali alterati, eppure, potrebbe essere pienamente allineato con il modello di cura osteopatico centrato sulla persona.
A detta degli autori, non dovremmo farci sfuggire l’opportunità di abbracciare il cambiamento e sviluppare modelli di cura più solidi, plausibili ed arricchiti di concetti estrapolati dall’evidenza scientifica.

Le risposte all’articolo di Esteves et Al.

In seguito al meraviglioso e provocante articolo di Esteves et al., consensi e risposte non si sono fatti attendere 15,16. Dalle risposte editoriali è apparso come l’emergere della EBM, ha progressivamente sfidato la nostra professione e la maggior parte dei suoi fondamenti tradizionali. Questa situazione ha favorito la necessità di rivedere criticamente i modelli di cura osteopatica, riconsiderare il ruolo della pratica basata sull’evidenza e riesaminare il nostro pensiero critico. Di conseguenza, un approccio basato sull’evidenza potrebbe diventare componente utile per l’articolazione della nostra identità professionale.

Un’opportunità, quindi, non una minaccia; a patto, ovviamente, che venga attuata nelle giuste modalità.

Considerazioni personali

“La vita è movimento”, tutto evolve, questa è una regola dell’esistenza. Non posso che ritrovarmi nelle parole di Paolo di Tarso quando asseriva “Omnia probate, quod bonum est tenete” ovvero “Esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono”. Tutto, infatti, potrebbe concorrere potenzialmente al nostro bene ed al bene del paziente, dipende da come apriamo il nostro sguardo alla realtà che muta.
Le radici sono sicuramente importanti, ma se queste non vengono utilizzate come base per spiccare il volo rischiano di trasformarsi in una gabbia. La medicina evolve, le nuove scoperte si accumulano, se non vogliamo trasformarci da “trascinatori” a “trascinati”, facciamoci trovare pronti al cambiamento, mantenendo inalterato quel carisma che ci ha sempre contraddistinto. Questa nuovo modo di esercitare la medicina osteopatica è possibile e, per rifarmi alle parole di Bruno Bordoni non dobbiamo mai dimenticarci che non siamo una setta, né una religione, non esistono dogmi, né concetti sacri. Occorre un vaglio critico nel nostro bagaglio conoscitivo e formativo, nuove verità potrebbero aspettarci dietro l’angolo, non tiriamoci indietro proprio adesso ed immergiamoci a pieni polmoni, senza paura, nel mare di possibilità che potrebbero derivarne.
Personalmente sogno una medicina finalmente unita, realistica, non schiava dell’economia ma sempre in linea con le continue scoperte sul corpo umano e la sua affascinante fenomenologia. Mi auguro fermamente che le parole scritte nel libro di Giorgio Cosmacini (“la medicina non è una scienza”17) possano essere introiettate nell’identità professionale di ciascun professionista della salute e che ognuno ragioni sul concetto che, in fondo, “la medicina non è una scienza, ma è una pratica basata su scienze e che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo […]Il patrimonio scientifico può essere un mezzo utile per conseguire il fine dell’essere medico, ovvero, curare i nostri simili con competenza e disponibilità”.
Che possa essere, per tutti, l’alba di un nuovo giorno.

FONTI BIBLIOGRAFICHE
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16. Amie Steel, Hope Foley, Rebecca Redmond. Person-centred care and traditional philosophies in the evolution of osteopathic models and theoretical frameworks: Response to Esteves et al. Letter to the editor| volume 36, p60-61, june 01, 2020.
17. Giorgio Cosmacini. La medicina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base. Raffaello Cortina Editore, 2008