Quest’articolo rappresenta un invito che volgo a voi lettori a voler esplorare le potenzialità della pratica meditativa, e inoltre vuol essere una condivisione delle esperienze personali, vissute da quando la meditazione è entrata nella mia vita e nella mia pratica professionale.
Da circa 20 anni opero nell’ambito della terapia manuale, all’inizio come fisioterapista, in seguito come osteopata. Nel tempo, ho fatto anche esperienza nel settore scientifico, formativo, direttivo, associativo, divulgativo ed editoriale, sia sul territorio nazionale che internazionale. Ho conosciuto personalmente e collaborato a stretto contatto con molti colleghi, direttori di scuola e ricercatori, coinvolti come me in più aspetti dell’osteopatia e della sua evoluzione; ho sentito parlare di molteplici teorie e ho visto praticare numerosi approcci, tecniche e manovre. Finché ho trovato la meditazione realizzando quanto importante essa sia per noi osteopati, e in generale per chiunque utilizzi un “contatto” a scopo terapeutico.
Avevo 19 anni quando incontrai la mia insegnante di meditazione, Neeraja (clicca qui per saperne di più), la quale mi “iniziò” – per così dire – ad un sentiero interiore di cui allora, ancora ragazzo, non riuscii bene a coglierne l’importanza. Tuttavia, a quei tempi furono piantati dei semi preziosi, che ancora oggi continuano ad offrire i loro frutti.
Dopo quel primo incontro e la breve esperienza che ne seguì, la vita mi portò verso un intenso percorso formativo, seguito da una carriera professionale volta alla ricerca di traguardi e successi in vari ambiti del mondo osteopatico. Le soddisfazioni furono molte, ma mai abbastanza per colmare la mia sete. Finché, per mia fortuna, il Maestro è riapparso nella mia vita 4 anni fa.
Da allora seguo e pratico l’insegnamento di Neeraja. Il metodo di meditazione che ho appreso da lei è semplice e diretto: inizialmente ci si dedica ad osservare il respiro per poi, placata la mente, ricollegarsi alla propria sorgente, alla consapevolezza di ciò che siamo in verità. È un training di attenzione mentale che ci risveglia a ciò che giace oltre le condizioni psichiche e il pensiero abitudinario.
Con una pratica regolare, ci si eleva al di là della mente e ci si lascia andare con chiarezza al dischiudersi della vita, dando ampio spazio alla serenità e al benessere. Ma non solo.
La pratica meditativa viene sostenuta e valorizzata da ritiri di meditazione, che offrono la possibilità di staccare con il quotidiano e di approfondire la meditazione stessa in ogni sua potenzialità, sotto la guida accurata dell’insegnante; avere un maestro, infatti, è fondamentale nella pratica. La meditazione innesca un processo di purificazione interna che può smuovere memorie e processi sepolti nella nostra coscienza: senza un punto di riferimento, è facile perdersi nell’intricato labirinto mentale.
Gli effetti di tale percorso interiore, che ho potuto constatare nella pratica professionale, sono molteplici e straordinari. Ad esempio, in fase di valutazione, ho riscontrato una maggior velocità e precisione, nell’individuare le aree chiave di blocco, come pure quelle da cui attingere le risorse auto-regolative disponibili nel paziente al momento.
Test di valutazione o di differenziale diventano secondari se si è in grado di ascoltare e riconoscere il linguaggio del corpo e dei suoi tessuti. Anche se questo sembra facile e ovvio, di fatto richiede una profonda capacità attentiva, come pure la maturità a potersi immergere nello stato di quiete per poi agire direttamente da lì.
Con sorpresa, in fase terapeutica, ho notato svanire le tecniche da manuale, e veder accadere come una sorta di “unfolding”, lo svolgimento di un processo catartico tra un paziente che si affida ed un operatore che dimora in uno stato di quiete, da cui prende forma la migliore azione terapeutica in quel momento. Siano esse manovre strutturali, fasciali, craniali, viscerali o biodinamiche, di fatto tutte emergono senza alcun processo logico, senza alcun pensiero o decisione in merito. C’è solo un agire avvolto dalla presenza; quella stessa presenza che si sperimenta nella pratica meditativa, quella stessa presenza che è così familiare, e in cui il nostro essere si immerge come una goccia nell’oceano.
In tal senso, la meditazione è presente similmente a un leitmotiv costante durante la mia intera pratica osteopatica; mi rendo conto così di uscire “quasi intatto” dall’intensa giornata lavorativa, come se qualcosa mi avesse impedito di disperdere il mio potenziale o di trattenere le tensioni e i dolori altrui. Ovviamente, la pratica meditativa è indispensabile per cancellare ogni possibile traccia: le impressioni immagazzinate inconsciamente e i trasferimenti subliminali. Questo implica la possibilità di ripulirci fisicamente e psichicamente dal vissuto quotidiano, oltre che schermarci da influenze dirette o indirette, le quali possono interferire col nostro stato di benessere.
Un altro dono che la meditazione ha apportato nella mia pratica professionale è la possibilità di avere a disposizione un’infinita spaziosità, come se il campo attentivo si fosse liberato delle interferenze mentali che avevano l’abitudine di giudicare, sovrascrivere ciò che di fatto stava accadendo. Essendosi placato il flusso dei pensieri, mi ritrovo in uno spazio libero da cui agire per tutta la durata della visita: dal primo contatto col paziente, all’intervista, alla valutazione e, infine, al trattamento. Questo mi offre la possibilità di entrare molto più facilmente e naturalmente in empatia con l’interlocutore e con i suoi tessuti, stabilendo uno stato di risonanza con chi ho di fronte e con la sua condizione.
Non a caso, l’importanza dell’ascolto empatico venne sottolineata da Sackett e colleghi nel 2000, che ne riconobbero il valore inestimabile soprattutto in fase di raccolta anamnestica, poiché su di essa si fonda il resto del processo decisionale clinico. Gli autori suggerirono che l’operatore può instaurare o rafforzare il rapporto empatico per creare il terreno ideale alla raccolta di informazioni non solo cliniche, ma anche relative alla vita, alle esperienze, alle sofferenze e speranze del paziente.
A tale scopo venne indicato un atteggiamento volto all’ascolto e all’assertività, che si esplica in una serie di strategie specifiche, quali la formulazione di domande aperte per iniziare la discussione, concedere tempo sufficiente a spiegare in maniera esaustiva il motivo della consultazione, chiedere al paziente di descrivere le emozioni in merito, riconoscere e tranquillizzare le sue preoccupazioni, usare commenti empatici, astenersi dal giudicare, etc.
Tuttavia, Sackett proponeva solo una strategia comportamentale per contenere la tendenza mentale dell’operatore a giudicare, nel tentativo di stabilire una presunta connessione empatica con il paziente. In sostanza, una soluzione mentale ad un problema mentale.
La meditazione, invece, consente di applicare una strategia che non è volta ad instaurare l’ascolto, ma a essere ascolto, il che è ben diverso! Eradica il problema alla radice, riportandoci laddove siamo sempre, ossia qui e ora, senza alcuna interferenza mentale.
Si acquisisce così lucidità, chiarezza, visione, precisione, forza, energie positive spendibili dall’inizio alla fine di una giornata lavorativa. Ciò consente di adagiarsi interiormente in uno stato di silenzio percettivo con l’ambiente e gli accadimenti circostanti; una quiete presente che sa cosa fare, cosa dire, cosa toccare, da dove iniziare e quando terminare. Essa non scaturisce da un ragionamento logico, né da un processo decisionale, ma sorge da ciò che è sempre qui, a portata di mano, ogni volta che ci distacchiamo dalle impressioni mentali e sensoriali.
In conclusione, la mia intenzione è di indicare il potenziale che si cela dietro la pratica della meditazione per tutti quelli che come noi hanno scelto la missione di promuovere la guarigione e il benessere, tramite l’intenzione e il contatto terapeutico: mi riferisco alle capacità che la meditazione offre di attenuare, se non eliminare, l’incessante elucubrazione mentale; mi riferisco ai suoi benefici, sia a livello fisico che psichico (clicca qui per saperne di più), nonché alle sue capacità trasformative nei vari ambiti della vita.
Tutti noi sappiamo che l’approccio osteopatico necessita di trascendere il livello biologico delle modalità sensoriali e trasmissioni neurali, della sensazione e percezione del dolore, includendo le interazioni di corpo, mente, spirito e ambiente al fine di comprendere l’unicità di ogni paziente (Gatchel and Maddrey, 2004).
Non a caso, McLaren nel 2010 proponeva la necessità di superare il riduzionismo biomedico – tendente ad interpretare ogni processo mentale ed emotivo solo come un fenomeno biochimico – con un modello biocognitivo, che invece meglio rispecchia la filosofia e la pratica olistica della medicina osteopatica, in quanto fondata sulla naturale interazione ed influenza reciproca tra corpo e mente.
Ma, oltre al superamento del riduzionismo medico, la nostra professione è pronta per un ulteriore salto qualitativo, affinché possa continuare a svettare alta tra le cime della medicina manuale. La meditazione offre quello slancio necessario a trasformare ciò che potrebbe rischiare di essere ripetitivo rendendolo invece naturale e spontaneo.
La mia speranza è quella di ispirare voi tutti, cari lettori e colleghi, a porre fede nella mia esperienza e a sperimentare in prima persona come poter essere uno strumento sempre più efficace al servizio della medicina.
La verità è che siamo un potenziale illimitato, intelligente e consapevole che trascende test e tecniche. C’è una sorgente a cui ognuno di noi può accedere ogni istante, a cui possiamo attingere in ogni momento, e da cui è possibile sprigionare processi di guarigione dalle possibilità infinite. La meditazione è la chiave di accesso – e come ci ricorda sempre Neeraja – «è la corrente che conosce la via!».
Sotto la guida del mio Maestro Neeraja, fondatrice dello Sri Papaji Center, io, questa via, l’ho seguita.