Il corpo umano è fatto di una parte cellulare e una microbica, almeno 10 volte superiore alla prima, come spiega il dott. Mainardi, chimico, in un’intervista di Vito Lattanzi.

Le nostre cellule hanno circa 24mila unità geniche espresse su una massa media di 80 Kg, mentre il nostro microbiota ci mette a disposizione dai 3 ai 4 milioni di unità geniche espresse da un peso di poco più di 1 kg, e queste unità geniche esprimono la capacità performante di un organismo. Questi fattori, da soli, ci danno la misura di quanto questa popolazione microbica – che già in parte ereditiamo durante la vita fetale – sia importante per la salute. Il corpo microbico aumenta infatti nei primi 1000 giorni di vita incrementando il numero dei ceppi e tendendo a raggiungere la biodiversità della mamma in modo graduale. Non è però un processo lineare, bensì estremamente oscillante malgrado sia sempre teso sempre ad aumentare nei primi 1000 giorni di vita.

Non a caso il dott. George Weinstock, genetista e microbiologo americano della facoltà del Jackson Laboratory for Genomic Medicine, dove è professore e direttore associato di genomica microbica, a questo proposito dice che siamo maggiormente tipizzati dal DNA dei nostri microbi rispetto a quello delle nostre cellule. Un DNA microbico capace di compensare i danni genetici, capace di riparare il DNA e anche di modificare l’espressione genica, tanto che – spiega Paolo Mainardi – “quando tipizziamo una malattia genetica, un danno genetico, questo poi nel tempo potrebbe anche modificarsi e scomparire”.

È il microbiota che controlla i nostri parametri vitali: la pressione, i processi metabolici, il funzionamento degli organi, del cuore, dei reni, del sistema neuro endocrino e del sistema nervoso centrale. Sempre più studi difatti dimostrano una correlazione tra l’alterazione del microbiota e numerose malattie neurologiche come Alzhaimer, Parkinson, Sclerosi laterale Amiotrofica, nell’epilessia, nella Pandas.



Oltre 4mila lavori sul motore di ricerca PubMed indicano il microbiota come una sorta di “ago della bilancia” tra salute e malattia, proprio come stabilisce lo studio Intestinal Microbiota: a moderator in health and diseases, che analizza come la relazione tra le nostre cellule, i batteri e l’ambiente possa essere fattore determinante a stabilire o meno il nostro stato di salute. I processi infiammatori con cui si vanno a riparare i tessuti danneggiati, per esempio, sono controllati dal microbiota, che se è forte, implicherà una risposta infiammatoria abile a riparare. Questo perché, come spiega lo studio di Stig Bengmark Acute and “chronic” phase reaction—a mother of disease pubblicato su Clinical Nutrition nel 2005, “l’infiammazione è l’arte di riparare” mentre “l’infiammazione cronica è la madre di tutte le patologie”.

Con l’invecchiamento si riduce questa biodiversità tornando ad uno stato di biodiversità simile a quello tipico dei primi mesi di vita, per questo si parla di “fragilità” degli anziani, in riferimento alla ridotta capacità di riparare i danni che subisce dall’ambiente. Condizione di bassa biodiversità simile a quella che Mainardi definisce “vulnerabilità” dei primi 1000 giorni di vita quando, se succedono degli eventi stressogeni importanti, possono generare danni che si manifestano anche nell’età adulta, “perché – spiega – se si è in una condizione fortemente biodiversificata c’è una risposta infiammatoria forte e riparatrice, se invece siamo su una bassa biodiversità dei ceppi, la risposta diventa infiammatoria cronica”.