Il dolore è oggi, più di ieri, argomento di dibattito nell’ambiente sanitario e in qualunque luogo ove ci si occupi di salute. Dai dibattiti inerenti situazioni particolarmente gravi come quella dei malati terminali e sulla “dolce morte” così come piace all’uomo colto di oggi chiamare l’eutanasia, originariamente significante “la buona morte”. Ma l’uomo moderno di buona morte non può sentire parlare, terrorizzato dal concetto stesso di morte e così, se proprio deve nominarla, preferisce anticiparla dalla parola “dolce” come se per miracolo, in questo modo si potesse renderla più amica, esorcizzando per un attimo, come in un rito di de-archetipizzazione i significati profondi che dietro all’evento della morte si dispiegano.

Il dolore “amico”

Imparare dal dolore. Questa è l’ottica in cui guardare al dolore, che è “amico” proprio perché ci indica che le cose, forse, non stavano andando troppo bene, da molto tempo, inducendo così all’azione, al mutamento volto per l’appunto ad eliminarlo.

Il dolore è lo stato emotivo che completa la medaglia del piacere. E’ un simbolo di trasformazione importante, mentre il piacere è un simbolo di stasi importante. L’uomo muove le sue azioni secondo delle precise leggi di economia e comfort, per cui il piacere produce un intendimento di stabilità e quiete, mentre il dolore produce un intendimento di mutamento. Così il dolore diviene non più intruso da cacciare immediatamente, ma prezioso aiuto nel comprendere che cosa sta succedendo.

L’atteggiamento dell’uomo, oggi, è sempre più orientato a respingere il dolore, sgradito “rivelatore” di verità scomode e importanti, talmente osteggiato e vilipeso che spesso sparisce, addormentato dalla mole di farmaci e di comportamenti sordi cui continuamente lo sottoponiamo. E così facendo ci derubiamo autonomamente del miglior scomodo “amico” che avevamo per indicarci che le cose, forse, non stavano andando troppo bene, da molto tempo.

Quando esplode la depressione impetuosa, la schizofrenia, il cancro, le malattie autoimmuni ecc. (solo per citare alcuni gruppi di patologie regine del nostro mondo), ci accaniamo ancora una volta di più con le terapie del dolore fino alla fine, per non permettergli di dirci mai più niente. Per non poter più imparare niente, perché non sappiamo più come parlare con lui: il dolore. Non sappiamo più che cosa ci vuole dire; non abbiamo più tempo per ascoltare, abbiamo troppa fretta di fare altre cose, altro da noi. Fino a quando non è troppo tardi.

Il dolore e la pratica osteopatica

Nella pratica dell’osteopatia capita la stessa cosa. La maggior parte dei pazienti che abbandonano il trattamento dopo la prima seduta, lo fa perché per alcuni giorni sono emersi dei dolori “nuovi” o si sono esacerbati quelli che erano stati motivo di consultazione.

La paura di soffrire è talmente elevata che la fuga si rivela l’unica soluzione di quel momento.

Se l’uomo è uno e tutto nello stesso istante, allora  non può esistere che nel lavoro sul corpo non si dia la possibilità a quell’uomo di modificare l’insieme del suo “essere sé stesso”. Così nel corpo si rivelano, sofferenze fetali o embriologiche, traumi emozionali sepolti nella memoria dei tessuti, nelle fasce e negli organi interni, memorie cerebrali chiuse nel non voler rivelare antichi disagi. Plessi nervosi, guardiani severi di porte che hanno chiuso emotivamente ed energeticamente il sorriso alla vita, per custodire segreti di dolore, posture simbolo degli eccessi e delle mancanze di una vita, colonne vertebrali rivelatrici della differenza tra la matrice originaria e la verticalità effettiva.
Il trattamento si scontra allora soprattutto con la possibilità che si dà il soggetto di comprendere ed integrare i suoi simboli, che manifestano la loro presenza rinvigorita spesso tramite disagi momentanei del corpo (dolori fisici), o degli stati emotivi o mentali.

Il ruolo dell’osteopata

Il terapeuta si fa allora messaggero di “corrispondenza interna” prezioso supporto per dare un appoggio solido e importante al processo di trasformazione del paziente.
Il lavoro dell’osteopata cambia, perché, in conformità col concetto di psicologia analitica, “Il terapeuta si è dapprima cimentato nell’esperienza della propria personale trasformazione per poter esperire con tutto sé stesso, e non solo con il pensiero, il processo terapeutico che avviene nell’altro”.

Il lavoro si inscrive allora in una relazione terapeutica di diverso valore, dove io – terapeuta, non guarisco, conscio di non averne il potere, ma bensì accompagno e il corpo diviene territorio di navigazione senza fine, tra le onde, a volte dolci e a volte impetuose del mare dell’esistenza.

Sito personale: www.andreaghedina.com

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