Oltre alle Università di Firenze e Verona, altri atenei italiani si stanno preparando a presentare i nuovi corsi di laurea triennale in osteopatia. È il caso dell’Humanitas University di Milano che sta lavorando in questa direzione e che vede l’osteopata Chiara Arienti impegnata in qualità di ricercatrice accademica di tipo A. Arienti si appresta dunque a intraprendere la carriera universitaria partendo da questo primo step in qualità di osteopata, ed è lei stessa a raccontarci un pezzo di questa nuova storia riguardante l’osteopatia in Università in un’intervista concessa a Tuttosteopatia.it.

In cosa consiste il tuo ruolo in Humanitas University e come è avvenuto il reclutamento?

Da poche settimane ho vinto il concorso di ricercatore a tempo determinato di tipo A (Assistant Professor) e attualmente sto lavorando con alcuni colleghi universitari alla pianificazione del corso di laurea in osteopatia. In questo momento non posso rilasciare ulteriori informazioni, perché il processo di accreditamento è lungo e complesso, per cui come policy universitaria si preferisce rilasciare dichiarazioni quando il progetto è ultimato e approvato da tutte le parti coinvolte.

Siccome Humanitas University aveva un interesse rispetto al corso di laurea in osteopatia, hanno cercato le persone più qualificate e il mio curriculum si prestava bene anche per una possibile carriera universitaria. Per cui inizialmente mi hanno proposto una collaborazione a tempo determinato per verificare l’opportunità del corso di laurea. Successivamente hanno deciso di istituire un bando pubblico per un posto da ricercatore di tipo A per il Settore Scientifico Disciplinare MED/50 e io ho applicato e vinto il concorso. Per me è un grande privilegio e onore poter iniziare la carriera accademica come osteopata. È da tempo che mi preparavo per questa occasione e spero di esserne all’altezza.

Come funzionano gli insegnanti universitari quali sono i livelli?

L’insegnamento universitario è normato per legge (legge 240 del 2010-Legge Gelmini- qui il testo della Legge) e prevede ruoli specifici all’interno dell’Ateneo. Questi sono principalmente tre e comprendono sia l’ambito didattico che di ricerca. Ci sono i professori, distinti tra ordinari (I fascia) e associati (II fascia), e i ricercatori accademici di due tipologie: tipo A – con contratto a tempo determinato fino a tre anni, rinnovabile solo una volta per altri due anni – e tipo B a tempo determinato, che dopo l’ottenimento dell’abilitazione scientifica nazionale possono accedere al ruolo di professore associato, previa volontà e disponibilità economica dell’Ateneo di istituire un concorso pubblico per professore associato.
I ruoli accademici sono definiti in base ai settori scientifici disciplinari (SSD) che sono un insieme di discipline/insegnamenti che permettono alle Università di organizzare gli ordinamenti didattici dei vari corsi di laurea. Per l’abilitazione scientifica nazionale, passaggio obbligatorio per diventare professore, bisogna identificare per quale SSD si sta applicando e per ogni SSD ci sono dei requisiti obbligatori che bisogna avere per poter applicare e che si basano principalmente sulle pubblicazioni fatte, con indicatori bibliometrici ben definiti, e attività di ricerca in atto e ruoli scientifici di prestigio ottenuti.
I professori di ruolo per ciascun SSD hanno da contratto un massimo di 120 ore da dedicare alla didattica, mentre i ricercatori di tipo A e B hanno un massimo di 60 ore.
Nel 2022 c’è stata una riforma universitaria con la legge 79 che ha praticamente unito le due tipologie (A e B) in una nuova figura di ricercatore a tempo determinato tenure track (RTT); un modo per offrire maggiore possibilità al ricercatore accademico, sempre previo conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale, di poter accedere più agevolmente al ruolo di professore associato.
Quando l’Università non riesce a coprire tutte le materie di insegnamento del SSD previste dal corso di laurea con gli accademici perché hanno esaurito il loro monte ore, le materie rimaste scoperte possono essere destinate a personale “esterno”, i cosiddetti “professori a contratto”. Per cui le Università attivano dei bandi per concorsi pubblici per l’insegnamento di quelle materie. Solitamente per le professioni sanitarie si appoggiano al personale presente nelle Aziende Ospedaliere che sono sede di tirocinio oppure ricorrono a personale esterno.
I requisiti di accesso a tali bandi non sono normati per legge, per cui è lasciata libertà alle Università di definirli nel bando. Solitamente devono essere esperti della materia di insegnamento e si privilegiano coloro i quali sono in possesso di un dottorato o di lauree magistrali.



Chi può insegnare al corso di laurea in osteopatia?

Non è semplice rispondere a questa domanda in questo specifico momento storico. Siamo in un momento di transizione, in cui manca ancora l’ultimo decreto sull’equipollenze per terminare finalmente l’iter legislativo del nostro riconoscimento. Per cui diventa difficile sapere, in questo preciso momento, quali siano i criteri per poter conseguire la laurea triennale, primo fondamentale elemento per poter ipotizzare di insegnare nei corsi di laurea.
Dopo di che bisognerà capire come intendono muoversi le Università che faranno partire i corsi di laurea. Lo scenario più probabile è quello che una volta stilato il piano di studi con i relativi SSD e le materie di insegnamento si comincerà a definire chi e quanti tra i professori e ricercatori universitari disponibili riusciranno a coprire i vari SSD presenti nel piano di studi del corso di laurea in osteopatia. Ciò che rimarrà scoperto, presumibilmente le materie caratterizzanti, saranno coperte dai “professori a contratto”. Pertanto le Università dovranno istituire dei bandi per dei concorsi pubblici, ma finché gli osteopati non avranno una laurea triennale in osteopatia non potranno applicare. Ma potranno farlo gli osteopati che hanno una laurea pregressa sanitaria o un dottorato di ricerca, ma che afferisce sempre ad uno specifico SSD. Questo implica che, basandoci sull’ordinamento didattico legiferato sul corso di laurea in osteopatia, le materie caratterizzanti potranno essere insegnate anche da professori e ricercatori accademici non osteopati. E finché non ci saranno abbastanza osteopati accademici da coprire le materie caratterizzanti, questa sarà la strada più immediata da percorrere anche per questioni economiche.

Esiste un rischio reale che questa gestione totale da parte delle Università vada a discapito delle competenze osteopatiche? 

La gestione degli insegnamenti sarà a discrezione delle Università e senz’altro potrebbe creare un grosso problema nell’acquisizione delle competenze osteopatiche e quindi del futuro dell’osteopatia stessa. Per cui bisognerà aspettare l’avvio dei nuovi corsi di laurea per capire come le Università si organizzeranno e come penseranno di sopperire a questa situazione di transizione. La speranza è che le Università abbiano l’intelligenza emotiva per trovare delle soluzioni che nel rispetto della normativa, riescano a coinvolgere gli osteopati nei corsi di laurea. Sicuramente la definizione delle equipollenze potrà essere di supporto anche per le Università per meglio definire i criteri di accesso per gli osteopati.
Però credo che in questo momento abbiamo un’altra priorità, ovvero la mancanza di conoscenza da parte delle Università di cosa sia l’osteopatia e quali sono le competenze che uno studente deve acquisire per definirsi osteopata. Questa mancanza conduce le Università a pensare di poter affidare le materie caratterizzanti a professionisti sanitari che hanno conseguito dei master in tecniche manuali/osteopatiche, pensando così di dare le giuste competenze osteopatiche ai futuri studenti. Questo è un grosso problema, perché mette a rischio il futuro dell’osteopatia italiana.

Cosa deve fare un osteopata per poter insegnare?

Al netto di tutti i passaggi obbligati descritti in precedenza e in attesa di sapere quali siano i requisiti che le Università adotteranno, l’invito sicuramente è quello, che una volta conseguita la laurea triennale, di iscriversi ad una laurea magistrale per poi proseguire con il dottorato di ricerca, iniziando a coltivare un’attività di ricerca che permetta la pubblicazione di lavori scientifici, un altro requisito da tenere in considerazione, soprattutto se si vuole intraprendere la carriera accademica.
Questo perché, il professore a contratto sicuramente insegna secondo il proprio monte ore, ma non ha nessun ruolo decisionale rispetto al contenuto delle materie che verranno insegnate all’interno delle corso di laurea; prerogativa questa degli accademici.
Pertanto, a mio avviso bisogna già ragionare in questa prospettiva ed iniziare a creare un movimento osteopatico che possa facilitare questo processo.
Mi rendo conto che può essere frustrante e la delusione di quanto ottenuto e di come i tempi inevitabilmente si allunghino, ma se non iniziamo a lavorare in questa direzione il rischio di perdere la nostra professione è molto alto.

Dove si potranno leggere i bandi?

Sui siti degli Atenei. Ma al momento o almeno fino a quando non verrà legiferato il decreto sulle equipollenze, non sappiamo quali siano i requisiti per partecipare a questi bandi. E comunque, ad oggi, gli unici che potranno applicare sono gli osteopati che hanno già un titolo pregresso sanitario, meglio se magistrale, o un dottorato di ricerca. Per tutti gli altri bisognerà aspettare la laurea triennale o magari i criteri definiti all’interno del decreto sulle equipollenze.

Cosa ritieni che debbano fare le Università per dare spazio agli osteopati come docenti?

Le Università seguono la prassi stabilita dalla legge e hanno poco spazio rispetto alla possibilità di inserire osteopati come professori a contratto, se non con i criteri descritti sopra. Ci vorrà del tempo, per cui adesso diventa fondamentale investire le nostre energie per creare informazione e formazione nelle Università affinché si evidenzi con chiarezza la differenza tra un professionista sanitario esperto di tecniche osteopatiche e un osteopata.
Per cui, intanto che la parte legislativa si risolva, dobbiamo assolutamente diffondere “cultura osteopatica” partendo dai suoi principi, dalla sua storia, dalla sua evidenza disponibile, per far capire che l’osteopatia non è una tecnica, ma una professione sanitaria a tutti gli effetti. E dobbiamo sentirci tutti ingaggiati in questo compito e responsabili di quello che diciamo e facciamo, a partire dal singolo osteopata che lavora nel suo ambulatorio, a quelli che lavorano in ospedale fino alle associazione di categoria. Dobbiamo creare un grosso movimento osteopatico che veda tutti i 15 mila e più osteopati italiani coinvolti in prima persona. Non è più rimandabile o derogabile ad altri, ciascuno di noi deve sentirsi parte in causa, perché si tratta del futuro della nostra professione, del futuro di ciascuno di noi!