di Francesco Imposimato, D.O.
A sei anni dal riconoscimento dell’osteopatia come professione sanitaria, la sua piena integrazione nel Sistema Sanitario Nazionale appare ancora in bilico. Nonostante il riconoscimento istituzionale, il dibattito sul ruolo dell’osteopata, in particolare nella prevenzione, resta acceso e sembra rallentare quel cammino verso un’inclusione totale, indebolendo al contempo le speranze di un’adeguata formazione universitaria.
Nonostante i progressi scientifici e l’aumento di articoli sull’osteopatia pubblicati su riviste specializzate, c’è ancora chi la ostacola o la guarda con sospetto, considerandola una disciplina infondata. Come accadde a Freud per la psicoanalisi, anche Andrew Taylor Still, il fondatore dell’osteopatia, è stato soggetto a critiche severe, consapevole che la sua disciplina avrebbe messo in discussione la medicina ufficiale e i suoi dogmi consolidati. Quale “eresia” avrebbe portato l’osteopatia? L’osteopatia ha sfidato il modello biomedico dominante, mettendo in discussione la rigida separazione tra corpo e mente e ridefinendo il concetto di cura. Sebbene il suo approccio possa sembrare eretico nel contesto della medicina tradizionale, si basa saldamente su principi anatomici e fisiologici, dimostrando
che non è affatto un’eresia, ma piuttosto un’estensione naturale della comprensione della salute umana.
Nella storia della medicina, sono numerosi gli esempi di figure che, introducendo nuove idee o pratiche, sono state inizialmente ridicolizzate o osteggiate dalla comunità scientifica, solo per essere successivamente riconosciute e celebrate per i loro contributi rivoluzionari. Innovatori come Louis Pasteur, che con la teoria dei germi rivoluzionò la comprensione delle malattie infettive, e Ignaz Semmelweis, che introdusse il lavaggio delle mani per prevenire
le infezioni post-parto, affrontarono critiche e scetticismo per le loro scoperte, ma alla fine la loro influenza trasformò radicalmente il mondo della medicina. Allo stesso modo, discipline moderne come l’osteopatia, inizialmente respinte, hanno trovato col tempo il loro spazio e riconoscimento all’interno delle scienze sanitarie ufficiali, dimostrando l’importanza di sfidare le convenzioni per il progresso scientifico.
Oggi in gioco non è solo il riconoscimento dell’osteopatia come disciplina sanitaria, che è stato il movente di molte critiche passate; si tratta, più radicalmente, della legittimazione di un approccio terapeutico diverso da quello tradizionalmente imposto.
La recente riforma in Italia ha limitato gli osteopati alle sole terapie di prevenzione, riservando la cura diretta alla medicina convenzionale. Tuttavia, questa distinzione risulta paradossale, poiché la prevenzione stessa è una forma di cura. Nella prevenzione primaria, l’obiettivo è prevenire l’insorgenza della malattia, agendo sulle disfunzioni somatiche. In quella secondaria, si interviene dopo una diagnosi per evitare peggioramenti e preservare
il benessere del paziente. Infine, la prevenzione terziaria si rivolge a chi soffre di malattie croniche o degenerative, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita, ridurre il dolore e mantenere l’autosufficienza.
Se non possiamo chiamarla “cura”, allora come possiamo approcciare un paziente?
La nostra competenza è stata relegata alla prevenzione, ma non è già questa, di per sé, una forma essenziale di prendersi cura dei pazienti? La prevenzione non è solo un mezzo per evitare malattie future, ma un atto di attenzione continua alla salute globale della persona, mirato a mantenere l’equilibrio e il benessere fisico e mentale. Prendersi cura non significa solo intervenire quando la malattia si è già manifestata, ma anche riconoscere i segni premonitori, correggere disfunzioni, ristabilire l’armonia corporea e migliorare la qualità della vita nel suo complesso.
Un sistema che privilegia risultati istantanei e rigidamente standardizzati lascia poco spazio a terapie che considerano il paziente nella sua interezza, focalizzandosi invece su interventi rapidi e vantaggiosi, principalmente sotto il profilo finanziario e per gestire efficacemente le risorse disponibili. In questo modo si rischia di trascurare l’importanza di una visione più globale, orientata non solo alla cura, ma anche al benessere complessivo della persona.
Se la medicina tradizionale tende a ignorare il concetto di autoguarigione, l’importanza del tocco e l’interconnessione del sistema corporeo nel suo complesso, e soprattutto la singolarità della persona, l’osteopatia deve essere riconosciuta come una scienza e una pratica distintiva, poiché si propone di curare il paziente nella sua unicità. Non mira semplicemente a correggere o normalizzare, come accade nella medicina tradizionale. Per sua stessa natura, non può seguire un protocollo standard, ma si adatta alle esigenze specifiche di ciascun individuo nel tempo.
Porre al centro la salute di ogni singolo paziente non significa sottrarsi al rigore della valutazione scientifica; al contrario, richiede di dimostrare l’efficacia tenendo conto delle variabili individuali, che non possono essere trattate come universali, come avviene per la convalida dei farmaci, dove le misurazioni e i risultati tendono a essere uniformi. Attribuire il massimo valore alla singolarità del soggetto rende l’osteopatia una scienza unica, che andrebbe integrata con le altre professioni sanitarie, valorizzandone la specificità piuttosto che proscriverla o mutilarla. L’epurazione del concetto di cura che ha coinvolto l’osteopatia potrebbe creare barriere culturali, portando a divisioni interne e nuove categorie all’interno della comunità osteopatica in nome di una medicina difensiva, che è l’espressione clinica di una competitività in cui ciascuno evita di mettere a rischio il proprio
sapere, proteggendolo dal confronto con quello degli altri.