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Osteopatia

Renzo Molinari

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Mettiamo ordine sulle tue origini. Quando, e dove sei nato? Sei italiano, francese, inglese…
R.M. Sono europeo. Sono nato il 13 aprile del 1953 nella zona dei Bassi Pirenei, ma molto presto con la mia famiglia mi sono trasferito in un paese vicino Lourdes. Le mie origini però sono italiane, i miei genitori sono entrambi della zona di Piacenza.

Come hai conosciuto l’osteopatia?
R.M. Ho conosciuto l’osteopatia prima di sapere cosa fosse.
Avevo 8 anni quando ho iniziato a trattare la gente con dei massaggi, delle mobilizzazioni.
Mia madre aveva spesso mal di schiena e mi chiedeva di farle qualcosa, e poi iniziarono a chiederlo  anche le vicine, gli amici delle vicine, e praticamente ho cominciato così.
Poi ho letto un libro, “Les mains du miracle”. Raccontava la storia di un dottore che durante la guerra si era occupato di un generale nazista, spesso sofferente di mal di pancia. Il dottore cercava di curarlo attraverso delle manipolazioni viscerali, e quando il generale si addormentava, provava a sottrargli il maggior numero di liste di ebrei che erano, come san tutti, destinati a finire nei campi di concentramento. Anche quello fu un modo nobile per salvare la vita a moltissimi uomini.
Ciò che mi colpì di questo libro, oltre naturalmente al gesto umano, fu proprio l’utilizzo da parte del dottore delle tecniche manuali viscerali, ed era la sola cosa che lo aiutava in questo caso.
Mi sono detto “quello che voglio fare è questo!”.
Mi sono messo alla ricerca, ma non trovavo nulla.
Un giorno ho ricevuto una telefonata, qualcuno dall’altra parte mi disse: “ho sentito che lei cerca qualcosa, una medicina manuale. Dovrebbe venire a vedermi lavorare“.
Ci andai subito, ho visto quelle mani lavorare e mi sono detto: “è questo!“.
Sto palando di Louis Rommeaux che attualmente lavora a Parigi. Così, all’indomani del nostro primo incontro, dopo solo tre mesi, frequentavo una scuola di osteopatia .

Dove?
R.M. A Parigi.

Chi sono stati i tuoi maestri?
R.M. Il mio più grande maestro è stato un cavallo. Naturalmente lavoravo e consideravo molti professori come miei maestri, ma un giorno organizzai  un week end di osteopatia veterinaria, credo fosse il primo in Francia.
Era il 1980 o 1982. Sono arrivato presso la sede del corso e c’erano solo undici studenti, uno degli iscritti non si presentò, e il mio professore mi disse “non c’è il dodicesimo, il dodicesimo sarai  tu“.
Così ho iniziato il corso, mi assegnarono un cavallo, un maschio purosangue, e mi dissero “vai nel box, metti la mano sul sacro e dì ciò che senti“; ci andai, in realtà con molta paura perché lo spazio era ristretto e il cavallo invece molto grande e nervoso.
Feci ciò che mi avevano detto ma il cavallo mi diede un colpo e finii fuori dal box.
Ritornai, misi la mano sul sacro e il cavallo mi spinse nuovamente fuori. Mi rivolsi al professore dicendo: “questo cavallo non mi vuole, non mi accetta, è meglio assegnarmene un altro” e lui: “non è il cavallo che non ti accetta, ma sei tu che hai paura e la dimostri al cavallo. Devi esser capace di essere neutro, e dopo riprovaci” .
Provai a dimenticare il cavallo, cercai di concentrarmi su di me. Ad un tratto il cavallo abbassò la testa e da quel momento iniziai a lavorare.
Quando sono tornato, dopo una settimana, potevo fare tutte le tecniche senza problemi.
E’ stato quel cavallo che mi ha insegnato la neutralità e la calma.
Questa è una storia interessante, ma ci sono dei gran maestri che rispetto molto, come Mitchell o Andrè Ratio che per me è stato proprio un esempio a livello di mani, ad oggi le più belle che ho visto lavorare.

Chi invece ha influenzato il tuo modo di lavorare?
R.M. Il cavallo rimane il migliore. Ma ho anche visto degli osteopati che sono poi diventati miei amici come Franz Buset, Louis Rommeveaux. Loro mi hanno dato molta ispirazione su piccole cose, ma molto importanti per me.

Raccontami un episodio significativo nella tua carriera da osteopata.
R.M. Uno dei miei grandi momenti è stato l’incontro con un uomo italiano.
Era il mese di agosto, una delle mie pazienti mi chiama per chiedermi se avessi potuto vedere un suo amico, che si fermava da lei per due tre giorni. Il mio no fu secco, avevo troppo lavoro, ma lei mi propose l’amico al posto della sua visita. Accettai. Non sapevo chi fosse e come ogni appuntamento decisi di fare un’esaminazione prima di iniziare. Ho iniziato la visita posando le mani sul suo cranio, e sentì sulla mia mano destra come un trapano del dentista che andava nel parietale. Ho levato la mano e mi sono detto: “non ho mai sentito nulla di simile”. Volevo assolutamente comprendere che cosa creava quella situazione. Ancora una volta posai la mano, e la sensazione fu la stessa. Ad un certo punto ho sentito una reazione emozionale nel paziente, ho sentito una rabbia terribile e mi sono sentito di dirgli: “lei sente così  tanta rabbia che se ci fosse qui davanti un chirurgo lo ammazzerebbe” .
Il paziente saltò dal lettino e mi rispose: “chi vi ha parlato di questa cosa”?
In realtà io non conoscevo nulla della sua storia, così iniziò a parlarmene.
Era un psicoterapeuta, abbastanza conosciuto, che si trovava a Parigi per fare una conferenza sul rapporto tra corpo e mente; era stato operato per un tumore al cervello, ma covava ancora dentro di sé una forte rabbia contro il suo chirurgo, perché, mi disse, “si sentiva violentato nella sua intimità”.
Questa storia, che ha dell’incredibile per me,  ha anche un seguito. Infatti qualche anno fa ero a Roma per un corso e un’amica mi propose di incontrarci a Piazza Navona per bere qualcosa insieme. Andai all’appuntamento e lei era seduta con uomo, praticamente quasi dieci anni dopo l’ho rivisto.



In una tua precedente intervista, per spiegare la visione dell’osteopatia, utilizzavi una metafora, quella dell’albero. La vorresti rispiegare?
R.M. Questa è una storia con Viola Frymann. Eravamo negli Stati Uniti al congresso dell’American Accademy of Osteopathy e abbiamo avuto una discussione un po’ accesa  sull’osteopatia in Russia. Viola aveva aiutato un gruppo a formare una scuola, mentre io un altro, ma sempre nella stessa città. Fu organizzata una serata, c’eravamo io e lei, i due russi, e Mike Patterson che fu un po’ l’arbitro della situazione.
La discussione iniziò perché Viola disse: “non so perché, ma quando piantiamo il germe dell’osteopatia in un luogo ci sono sempre due piante che nascono”. Io dovetti risponderle: “scusa Viola, ma credo che per la prima volta devo contraddirti, perché quando piantiamo in un Paese il germe dell’osteopatia non ci sono due piante che nascono, ma due radici che per prendere energia vanno verso direzioni opposte. Solo quando saranno abbastanza forti riporteranno  l’energia verso il centro, ed è solo allora che l’albero dell’osteopatia potrà crescere. E, secondo me, in questo momento l’osteopatia è al punto in cui le radici intorno al mondo stanno portano energia a quell’unico albero, e credo che né lei, né io, né i miei bambini potranno vedere i fiori e i frutti di questo albero,  perché occorre ancora  molto tempo”.
La storia che mi chiedevi era questa.

Bellissima. E se mi dovessi dire quali sono i limiti dell’osteopatia?
R.M. Non esistono.

E’ un po’ troppo.. anche se lo sai che è la risposta che volevo.
R.M. No, non esistono perché non è l’osteopatia è il paziente, è la vita. Il limite dell’osteopatia è la vita, e la vita non ha limite.

Hai ricoperto per 12 anni il ruolo di Direttore dell’European School of Osteopathy di Maidstone.  Come sei arrivato da Parigi a Maidstone?
R.M. Ho frequentato una prima scuola a Parigi, poi una seconda, e successivamente mi sono iscritto a Maidstone. Quando ero studente in Inghilterra lavoravo già come osteopata a Parigi.
In realtà volevo iscrivermi anche ad una quarta scuola perché mi sentivo debole sul piano neurologico-endocrinologico, ma a Maidston mi chiesero di fare alcune lezioni e così ho iniziato ad insegnare e non ho avuto più il tempo per essere uno studente a tempo pieno.
Insegnavo sia a Parigi che a Maidston, e nel 1993, quando l’osteopatia è stata riconosciuta in Inghilterra, il vice Preside dell’European School of Osteopathy fu nominato Presidente del Registro inglese. Il suo posto a Maidston era libero e per me rappresentava un’opportunità fantastica.
In quel periodo mi occupavo e dirigevo il Collège d’Ostéopathie Francaise a Parigi, ma pensavo che sarebbe stata un’occasione irripetibile prender parte all’evoluzione accademica di una scuola nel momento in cui l’osteopatia veniva riconosciuta. Come vice principale volevo organizzare gli studi universitari e la clinica in modo universitario. Andai a Maidston per fare questo.
Dopo tre anni volevo partire per tornare in Francia e in quel momento la direttrice, mi disse che non mi era possibile perché sarei stato io il prossimo Principale.
Ne ho parlato molto con la mia famiglia, decidemmo di rimanere in Inghilterra. Così sono diventato direttore dell’ESO.

Cosa ha dato e cosa porti con te di questa esperienza?
R.M. Cosa mi ha portato? Mi ha portato i capelli bianchi molto presto, la barba bianca..
E’ stata una bella avventura, ma molto pesante anche perché l’ESO è una scuola importante, con un organizzazione amministrativa e di managment a livelli molto professionali; poi da un punto di vista  accademico abbiamo sviluppato tutte le possibilità, dal Bechelor alla licenza, fino ai master e ai dottorati, e questo è stato un obiettivo raggiunto nel 2003.
Questa esperienza mi ha dato la possibilità di fare quello che volevo.
Se sono andato in Inghilterra è perché pensavo che la scuola inglese di Maidston fosse la migliore esistente anche per formare una rete accademica internazionale. Ed è così che ho formato il network europeo accademico, e successivamente ho proposto la formazione di un’organizzazione mondiale dell’osteopatia.

A quale organizzazione internazionale fai riferimento?
R.M. Mi riferisco al WOHO, World Osteopathic Health Organisation.
Ho proposto la formazione di questa organizzazione durante un convegno dell’American Academy of Osteopathy (AAO) in Virginia. Si trattava di un forum internazionale, dove ognuno esponeva e proponeva delle idee. Per esempio un americano suggerì la formazione di un associazione di medicina osteopatica; un australiano propose invece un’associazione di medicina neurovascolare. Entrambe le soluzioni mi apparivano inaccettabili, degli errori. La prima perché avrebbe in realtà legittimato la possibilità di appartenenza all’associazione solo ed esclusivamente ai medici, ed in  realtà solo negli Stati Uniti tutti gli osteopati sono anche dei dottori. La seconda faceva perfino sparire completamente il nome “osteopata”.
Il mio pensiero è che occorreva  formare un’associazione di osteopati senza alcuna connotazione medica.
E’ importante inoltre raccontare che in quel periodo facevo parte del Comitato che si occupava del Vocabolario Internazionale dell’Osteopatia e nei giorni che avevano preceduto questo meeting internazionale, mi ero reso conto che gli Americani avevano eliminato due parole, a dir poco fondamentali, dal vocabolario osteopatico ufficiale. Queste due parole erano osteopatia e osteopata, che erano state sostituite da Dottore osteopata e Terapia osteopatica manuale o medicina osteopatica manuale. Ciò che era accaduto rappresentava  per me un insulto alla nostra osteopatia.
Richiesi così un incontro con Kucera e con gli altri americani del comitato, e solo dopo 18 ore di discussioni riuscì a far capire che eliminare la parola osteopatia significava eliminare l’essenza stessa della nostra filosofia e che chiamare gli osteopati “dottori” avrebbe precluso la strada a tutti coloro che americani non erano. La questione si è risolta positivamente, poiché accettarono la reintroduzione della parola osteopatia, che fu definita parola storica, e si decise che “dottore osteopata” fosse un termine usato unicamente negli Stati Uniti; “osteopata” invece, nel resto del mondo.
Così fui soddisfatto, ma c’era un’altra cosa che mi disturbava molto, ossia la sostituzione nel vocabolario ufficiale dell’osteopatia, dal 1974, della parola “lesione osteopatica” con “disfunzione somatica”. E per me, dire disfunzione toglie tutta la parte spirituale, tutta la parte non somatica della lesione e toglie un gran senso nel modo di pensare di Still.
Per questo al meeting internazionale proposi la formazione di un associazione internazionale di osteopatia, e non di medicina. Perché se Still l’ha chiamata “osteopatia”, non vedo perché bisogna definirla “terapia manuale osteopatica” o “medicina manuale osteopatica”.  C’è una parola che è stata creata e dobbiamo rispettarla per non toglierne il senso, e per me le parole non sono scelte a caso.
Allora, ho proposto la formazione di questa associazione internazionale avvalendomi subito  di due supporti: Fred Mitchell e Viola Frymann. La mia proposta è stata votata positivamente da 36 persone su 37, quasi ad unanimità. E da quel momento abbiamo organizzato in Portogallo una prima riunione di lavoro nel 2002. In quell’occasione erano 22 i Paesi rappresentati e molti si chiedevano perché il Portogallo. L’ho scelta per una ragione ben precisa, perchè non volevo gli Stati Uniti.  Non volevo cioè il controllo dell’osteopatia americana su questa associazione.  Al contempo non volevo farlo in Inghilterra perché certi europei l’avrebbero trovato inaccettabile, nè tantomeno in Australia perché troppo distante. Per cui scelsi un Paese dove l’osteopatia è molto piccola, appena nascente  e con una piccola associazione.  In Portogallo decidemmo di tenere la successiva riunione a Parigi, nel palazzo del senato a gennaio 2003, dove la legge riconosceva maggiormente l’osteopatia. Ci fu partecipazione da molti Paesi, anche se furono pochi i rappresentanti francesi dell’educazione o della politica osteopatica. Fu un peccato, perché una riunione in un palazzo ufficiale ottenuta con il supporto dei senatori benchè fosse difficile da ottenere, rappresentò una spinta per l’osteopatia. In seguito siamo stati contattati dall’ OMS Organizzazione Mondiale della Salute per stabilire tutti gli standard di educazione, di esistenza della professione e abbiamo prodotto un livello soddisfacente per europei, americani e australiani.   Sono uscito dal comitato direttivo e non mi sono più presentato.

Cose ne pensa della ricerca in campo osteopatico? Quali strade sono ancora da approfondire o scoprire?
R.M. La ricerca è ciò che si deve sviluppare e incentivare il più presto possibile affinché l’osteopatia possa ottenere un riconoscimento giuridico, perché fino a quel momento non sarà possibile renderla credibile.
Il problema, secondo me, è che in questo momento ci sono delle ricerche che si sviluppano scimmiottando la ricerca scientifica. E questo non è possibile perché l’osteopatia è una medicina preventiva dell’uomo, non del sintomo.
Per esempio ho visto una ricerca che vuole dimostrare l’utilizzazione dei riflessi di Chapman sui pazienti, ma a mio avviso questo protocollo di ricerca è organizzato in modo totalmente antiosteopatico. Sono sempre gli stessi punti di Chapman che vengono utilizzati per curare venti pazienti differenti e per vedere se vi è un risultato specifico con questi trattamenti. Ma questo è il metodo medicale e non può funzionare, perché trattiamo l’uomo, non i sintomi.
Per me bisogna invece trovare protocolli osteopatici guardando i risultati clinici, ma applicando l’osteopatia. Ci sono delle cose molto semplici da fare ma che non vengono fatte perché vogliamo avere il supporto dal mondo della ricerca ufficiale.

Ma viste le tue conoscenze, qualcuno che si sta occupando di ricerca lo conosci?
R.M. Si, ci sono delle persone che si stanno adoperando, a livello per esempio del World Osteopathic Health Organization come Mike Patterson. Ci sono anche dei protocolli interessanti con delle ricerche multicentrate tra gli USA, l’Europa e la Nuova Zelanda.
Purtroppo c’è anche un’energia pazzesca che si perde con tutti gli studenti. Sono sempre le stesse ricerche che vengono duplicate, triplicate. In ogni Paese dovrebbe esserci una organizzazione centrata internazionale per fornire delle direzioni di ricerca e organizzare quindi un’azione coordinata nel mondo.

Qual è l’importanza di organizzazioni come l’OSEAN (Osteopathic European Academic Network), da te voluta e costruita?

R.M. LOSEAN è una piccola organizzazione, per me molto importante, e anche per l’osteopatia lo è. Credo che associarsi sia fondamentale,  perché le scuole sono piccole unità, fanno molti sforzi, ma sono isolate e sarebbe un risultato positivo concordare degli standard di educazione equivalenti in più Paesi, tra differenti scuole, per poter incentivare gli scambi tra professori, studenti, e dar slancio ad una maggiore mobilità europea.
L’idea di OSEAN è nata nel 1998, quando le direttive di Bologna non erano conosciute e si cominciava appena a parlare di mobilità europea, di standard di educazione. Ciò che avevo provato a fare era mettere insieme diverse scuole di diversi Paesi. Inizialmente eravamo solo dieci scuole di dieci Paesi differenti che si diedero medesime  un’unita d’insegnamento, standard di educazione, direzioni comuni di ricerca, e fornirono supporti agli studenti.

Questo progetto va  ancora avanti?
R.M. Si, ma io ho deciso di ritirami dalla presidenza di Osean quando ho deciso di ritirarmi dalla scuola. Osean va avanti, il presidente eletto è Raimund Engel, direttore della Scuola di Vienna.

Ora, raccontaci di una delle emozioni che abbiamo vissuto a Maidston.
La storia del “bastone di Still” e di come è arrivato a Maidston.
R.M. Questa storia è iniziata due anni fa, quando ho ricevuto dagli Stati Uniti la telefonata di un osteopata americano, che mi parlò del bastone di Still e mi disse che stavano cercando una persona, un’istituzione a cui consegnarlo.
Mi spiegò che era uno dei suoi bastoni di marcia preferiti e che lo considerava come il suo legame con le forze spirituali.
Steven iniziò a farmi delle domande sulla mia comprensione dell’osteopatia, sulla filosofia, sui principi e mi chiese se ero disposto a ricevere delle interviste. Acconsentì per un’intervista.
In realtà pensavo che volesse parlarmi dell’educazione dell’osteopatia in Europa, ma quando mi chiamò mi disse che stavano pensando di presentare il bastone di Still, simbolo dell’osteopatia, ad un’istituzione che fosse al di fuori degli Stati Uniti perché pensavano che in quel momento l’osteopatia fosse più viva in Europa. Così mi comunicarono che ero nella lista dei potenziali assegnatari del bastone.
Non pensavo di esser la persona giusta perché questo bastone è stato dato da Still a Becker, suo migliore allievo e che, a sua volta, lo passò a suo figlio Rollin Becker il quale, nel ‘96, prima di morire, chiese a suo fratello e a suo figlio Alan, di trovare qualcuno, o un’ istituzione che rappresentasse la filosofia dell’osteopatia.
A loro parere il mio lavoro rappresentava questo, per aver diffuso la filosofia osteopatica attraverso la creazione di un’associazione internazionale e facendo convergere medici e non,  intorno ai principi base dell’osteopatia.
Un giorno durante un’intervista mi chiesero: “se lei ricevesse  il bastone di Still, cosa ne farebbe?” Ed io: “se scegliete me, vi dico che il bastone non mi appartiene, ma appartiene a tutti gli osteopati perché siamo tutti figli di Still. Secondo me è opportuno che questo bastone stia in un’istituzione, e sarà a Maidston, e rappresenterà il passaggio della tradizione, della conoscenza per gli studenti. Saranno loro che lo vedranno perché verrà posto in esposizione in un luogo in cui passano tutti i giorni, ma non potranno toccarlo finché non diventeranno osteopati, e il giorno della loro graduazione ne avranno diritto“.
A questo punto mi dissero: “è vostro“.

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