Le coliche del neonato, si sa, sono una questione spinosa per qualunque genitore  chiamato alla gestione del benessere del proprio figlio. In tal senso, è possibile affermare che per ogni bambino stressato e dolorante, ci sarà sempre un genitore stanco, irrequieto, preoccupato e frustrato, essendo questa fenomenologia tanto comune quanto resistente nelle sue remissioni episodiche.

Non di rado, infatti, questo disturbo può esperire un notevole impatto sulla psicologia e sulla qualità della vita delle figure genitoriali e dei caregiver coinvolti. A tal motivo, è utile farsi trovare preparati  sull’argomento.

Colichette: cause, sintomi ed esordio

Sebbene ancora oggi non sia stato raggiunto alcun consenso sulla causa precisa delle coliche, numerose ipotesi in letteratura medica sono state vagliate: problemi di malassorbimento, immaturità del microbioma, disbiosi, allergie, intolleranze, ruolo degli spasmi e della motilità intestinale, eccessiva produzione di gas ma anche fattori come l’impatto dello stress genitoriale sul bambino, qualità della nutrizione materna o le caratteristiche di temperamento del neonato.

Gli autori Ellwood J e colleghi, nel 2020 hanno riportato cifre statistiche secondo le quali le coliche infantili colpiscono tra il 3% e il 40% dei bambini in tutto il mondo, a seconda della geografia di riferimento e delle definizioni nosologiche ivi utilizzate.

Si stima che circa una famiglia su sei consulti un operatore sanitario a causa dei sintomi con cui le coliche tendono a manifestarsi (agitazione, angoscia, pianto eccessivo ed inconsolabile). In particolare, il segno del “pianto” è uno dei motivi più comuni di consulenza pediatrica e visite al pronto soccorso; eppure, solo nel 5% di questi casi vengono fornite spiegazioni mediche identificabili.

Sicuramente, in questa precisa fase dell’esistenza, il pianto è una forma di comunicazione a tutti gli effetti, pertanto, nel caso stiate sospettando la presenza di coliche nel vostro bambino, sappiate che ci sono dei criteri ben precisi da tenere in considerazione.

In una meta-analisi pubblicata nel 2017, gli studiosi Wolke D, Bilgin A, Samara M, hanno tentato di comprendere la prevalenza e la durata delle coliche nei primi 3 mesi di vita. Inoltre, gli autori hanno cercato di calcolare la durata del pianto/agitazione nei soggetti più inclini al disturbo. In totale sono stati analizzati dati provenienti da 28 studi e corrispondenti, numericamente parlando, a 8690 bambini.

Dalla meta-analisi è emerso che le coliche, intese secondo i criteri di Wessel modificati, tendono ad essere molto più frequenti nelle prime 6 settimane di vita (17%-25%) rispetto alle 8-9 settimane di età (11%) o alle 10-12 settimane di età (0.6%) ed avere incidenze più basse in paesi come Danimarca e Giappone.

Nella fase di maggiore incidenza (prime 6 settimane di vita), la durata media giornaliera del pianto si è presentata variabile dai 117 min a 133 min, mentre intorno alla 10 -12 settimana di età, sembra avvenire una fisiologica riduzione della durata media giornaliera di pianto (pari a 68 minuti).

In altre review invece, è stato riportato che l’esordio delle coliche può essere compreso tra i primi 3 giorni di vita e le 3 settimane di età, mentre i neonati prematuri tendono a sviluppare i sintomi molto più tardivamente rispetto ai loro compagni nati a termine.

In ogni modo cari genitori, l’andamento naturale delle coliche infantili tende ad essere favorevole, con sintomi che scompaiono gradualmente entro 4-5 mesi, fino ad un massimo di 6.

Criteri diagnostici per le coliche neonatali

I criteri di Wessel, noti anche come “regola del tre”, sono criteri diagnostici che per anni hanno aiutato i clinici nella diagnosi delle coliche intestinali del neonato. In questi criteri, il disturbo è stato definito come “parossismi di irritabilità, agitazione o pianto della durata ≥3 ore al giorno, per ≥3 giorni alla settimana, per >3 settimane, in un bambino altrimenti sano e con età compresa tra 2 settimane e 4 mesi”.

Recentemente, tali criteri sono stati sostituiti da un orientamento diagnostico più accurato e formulato dal comitato Roma IV, nel 2016 (per approfondimenti si veda: Benninga MA et al. 2016). Secondo questi nuovi criteri, siamo in presenza di coliche se:

  1. Il bambino ha meno di 5 mesi di età;
  2. Si palesano periodi ricorrenti e prolungati di pianto, agitazione o irritabilità, senza una causa evidente e che non possono essere né prevenuti né risolti dagli accuditori;
  3. Non vi è nessuna evidenza di ritardo della crescita, febbre o malattia.

Nei criteri di Roma IV, viene anche specificato il termine “agitazione”, ovvero, quella particolare espressione comportamentale del bambino, caratterizzata da una vocalizzazione intermittente ed angosciata, senza una effettiva manifestazione di pianto.

Infine, sempre ai fini utili della diagnosi, deve essere inclusa:



  1. La conferma verbale da parte del caregiver, che il bambino ha pianto o si è agitato per 3 o più ore al giorno, per un numero di giorni pari o maggiore di 3, nell’arco della settimana;
  2. Oppure, un rapporto mediante registro comportamentale delle 24 ore, di pianto ed agitazione della durata uguale o maggiore alle 3 ore.

Ovviamente, nei bambini che soffrono di questo disturbo, è possibile assistere anche a segni di accompagnamento “aspecifici”, come ad esempio, disagio/malessere durante l’alimentazione (es. espulsione di saliva, vomito e pianto), posizione caratteristica di ritiro delle  gambe, distensione addominale, aumento generalizzato del tono, inarcamento e rossore.

Colichette del neonato: alcuni consigli

Benché la letteratura non offra sempre certezze inequivocabili e spesso subentrino contraddizioni fra i diversi studi, vi sono alcuni consigli che è possibile seguire per la gestione non-farmacologica delle colichette del neonato. Vediamoli insieme:

  1. Innanzitutto, consultare sempre il Pediatra: lo specialista, infatti, potrà procedere nella corretta rilevazione del problema e nella diagnosi differenziale. In questo modo verrà esclusa la presenza di disturbi più gravi (es. infezione, appendicite, peritonite, intussuscezione, etc.) e verrà fornito un orientamento ideale per la risoluzione del problema;
  2. Fare attenzione alle fonti alimentari materne: la qualità e la scelta dei cibi ingeriti dalla madre, può ripercuotersi inevitabilmente sulla composizione e la qualità del latte materno. Nonostante anche in questo caso, non sia stato raggiunto un consenso generale, alcuni autori sostengono che potrebbe essere utile per la risoluzione del disturbo effettuare una dieta materna ipoallergenica di 7 giorni, nella quale evitare l’assunzione di alimenti come: uova, arachidi, noci, grano, soia, pesce, latte vaccino e alimenti contenenti proteine ​​del latte vaccino;
  3. Previa conferma pediatrica, è possibile procedere con la somministrazione di probiotici utili per il microbioma intestinale del bambino e contenenti possibilmente Lactobacillus reuteri, uno dei ceppi maggiormente indagati nelle ricerche di settore. Sempre in merito a questo tema, occorre ricordare che la fisiologica colonizzazione del microbioma intestinale del bambino, avviene soprattutto in fase perinatale, quando il feto è indotto al disimpegno del canale vaginale (parto eutocico). In caso di parto distocico e procedura di parto cesareo, questo contatto diretto fra feto e flora batterica vaginale materna viene meno, con possibili implicazioni per il corretto sviluppo del microbioma neonatale. Di fronte a questi episodi, alcune ostetriche suggeriscono di ovviare al problema intingendo le labbra del bambino, in fase post natale, con i fluidi vaginali della madre e mediante utilizzo di un tessuto pulito o mediante previo umettamento del capezzolo in fase pre-poppata. Ma attenzione, per procedere in tali applicazioni è sempre consigliato farsi seguire ed istruire da professionisti del settore;
  4. Strategie comportamentali dei genitori: non lasciarsi iper-stressare e non agitarsi troppo per i sintomi del bambino; se necessario farsi aiutare anche da altri caregiver. Un genitore troppo stressato, infatti, non risulterebbe molto d’aiuto per la salute del bambino, in quanto lo stress può esperire un impatto negativo sulla “diade” madre-bambino. Eventualmente, è possibile utilizzare metodi empiricamente diffusi come la “tecnica delle 5S”. Le 5 S sono indicative di termini anglosassoni quali: Swaddling, Side-stomach, Shh-sound, Swinging e Suckling. Tali terminologie sono traducibili in precise strategie adottabili in caso di coliche, ovvero: fasciare il bambino, posizionarlo dal lato dello stomaco, emettere dolci rumori di fondo (es. “shhh”), cullare e permettere la suzione. In alcuni casi può essere aggiunta la possibilità del massaggio infantile, che può ottimizzare l’interazione genitore-bambino e ridurre le risposte stress/arousal-correlate. Ovviamente, cari genitori, fate sempre molta attenzione a non esagerare con la pressione in area addominale.
  5. Controllare la suzione: si consiglia a tutti i genitori di verificare se il bambino presenta caratteristiche di suzione atipica. In alcuni casi, infatti, un’eccessiva ingestione d’aria potrebbe amplificare il sintomo delle coliche. Alcuni segni da tenere sotto controllo sono: un morso eccessivamente gengivale (spesso uno dei segni cardine di questi modelli è l’eccessiva dolenzia in corso di allattamento e la comparsa di ragadi), ridotto pattern di suzione linguo-palatale, debole effetto “vacuum”, nervosismo ed irritabilità in corso di poppata, rumori atipici (es. schiocchi o udibili risucchi d’aria), evidente fatica ad attaccarsi al seno, costante preferenzialita di un seno rispetto all’altro, tempi di poppata troppo brevi o troppo lunghi, “sfinimento” post poppata, fuoriuscita eccessiva di latte dal cavo orale. Altro elemento da poter utilizzare come punto di riferimento è ricordarsi che il labbro superiore del piccolo non dovrebbe essere troppo visibile in corso di suzione, ma dovrebbe apparentemente “sparire”. Infine, va precisato che una suzione atipica può determinare conseguenze sulla stessa produzione di latte, essendo questa correlata anche allo stimolo diretto dell’allattamento (influenza sulla produzione di ossitocina);
  6. Provare con approcci terapeutici manuali: vedi sezione inferiore “prospettiva osteopatica”

Prospettiva osteopatica

Nonostante in questo contesto sia stata suggerita la necessità di un miglioramento qualitativo delle ricerche, diversi studi hanno evidenziato un possibile ruolo per le terapie manuali nella gestione di questi disturbi infantili. Nelle varie pubblicazioni, sono stati evidenziati positivi riscontri in diversi contesti: numero di ore di pianto registrate nelle 24h, numero delle ore totali di sonno, miglioramento dei parametri comportamentali (es. irritabilità ed agitazione) e soddisfazione espressa dalle figure genitoriali.

Tuttavia, ancora oggi non è stato raggiunto pieno consenso su come le terapie manuali, in particolare l’osteopatia, siano in grado di alleviare le coliche ed  attualmente diverse teorie vengono fornite in merito. L’autore Kok Weng Lim, in una review del 2006, ha cercato di esprimere una sintesi generale di queste ipotesi.

Il trattamento osteopatico, per sua natura, è diretto alle strutture somatiche (in particolare al sistema muscolo-scheletrico) ed il miglioramento delle coliche in corso di trattamento può suggerire una possibile correlazione fra strutture somatiche e sintomi, ma anche fra pato-meccanica ed esordio dei sintomi.

Ad esempio, Magoun ha ipotizzato che le coliche siano il risultato di una possibile irritazione del nervo vago, a sua volta associata a modelli di deformazione tissutale nella base cranica, in particolare nelle aree petro-basilari ed occipito-mastoidee. Questi schemi disfunzionali localizzati, potrebbero infatti causare una compressione o irritazione diretta al nervo, dei nervi nervorum (innervazione intrinseca della guaina nervosa vagale) o dei vasa nervorum (piccoli vasi che accompagnano le fibre nervose vagali e con probabile innervazione autonomica).

Supporti teorici per questa concezione ostepatica (disautonomia come fattore eziologico delle coliche) sono stati forniti da autori come Jorup, Wessel et al., Eppinger e Hess, i quali hanno postulato associazioni fra sintomi gastrointestinali ed iperattività parasimpatica vagotonica (tono vagale elevato e iperreattività vagale). Ulteriori osservazioni in merito sono state riportate in bambini di età superiore ai sei mesi, incapaci di regolare gli stati di sonno, di digerire il cibo in modo efficace e di auto-calmarsi in risposta a stimoli sensoriali mutevoli.

Ma come è possibile per un bambino così piccolo, incorrere in certe dinamiche patologiche? Il parto è stato definito da alcuni autori come uno dei momenti più stressanti della vita della persona. In questa fase, infatti, possono insorgere traumi perinatali diretti al sistema muscolo-scheletrico, a loro volta facilitati dalla generale immaturità del sistema muscolo-scheletrico. Se da una parte, le ossa della volta cranica non sono ancora fuse e sono in grado di sovrapporsi (imperativo biologico necessario per diminuire il diametro complessivo della testa e consentire il passaggio attraverso il canale del parto), d’altra parte queste strutture non sono totalmente immuni all’eccessivo stress meccanico.

Le ossa della base cranica del neonato sono ossa composite e costituite da piu porzioni. Ad esempio, l’osso occipitale è formato da quattro porzioni attraverso le quali nervi cranici come il glossofaringeo (IX), vago (X), accessorio (XI) e ipoglosso (XII) devono poter fuoriuscire liberamente. La distorsione subita a questo livello potrebbe portare a una funzione alterata di questi nervi.

L’eccessiva compressione delle strutture craniali può subentrare per diversi fattori: travaglio/parto troppo duraturo, precocità dell’impegno cefalico verso il canale del parto, applicazione di forcipe e ventosa (fortunatamente sempre meno utilizzate), malposizionamento uterino con angolo cefalo-rachideo eccessivo.

Le forze espresse in fase di travaglio (in particolare in contesto di induzione farmacologica), possono essere più incisive di quanto si pensi: ad ogni contrazione dell’utero, le compressioni verticali vengono trasferite al feto lungo un asse cefalo-caudale. Queste forze sono assorbite principalmente dalla base cranica, dalla giunzione cranio-cervicale e dal resto della colonna vertebrale, ma possono essere assorbite anche dal bacino (lateralmente), dal torace, dalle spalle. Ovviamente non esiste solo un vettore cefalo-caudale ed andrebbero considerate anche forze torsionali, le quali, agendo sulla testa e sul collo, vengono assorbite principalmente dall’articolazione atlanto-assiale ed atlo-occipitale. Tali forze, se eccessive, potrebbero causare distorsioni atlo-occipitali e sul resto della colonna vertebrale.

Inoltre possono subentrare effetti diversi a seconda delle varie presentazioni del feto alla nascita. Nella presentazione podalica, ad esempio, il bacino è compresso verso il canale del parto, con forze pressorie trasmesse dalla testa e colonna vertebrale verso l’osso sacro, provocando una contronutazione di quest’ultimo.

Sempre in letteratura osteopatica, è stato postulato che il primo respiro o il primo pianto del bambino, emesso immediatamente dopo la fase espulsiva, sia un importante contributo per la normalizzazione di queste forze pressorie gravanti sulle strutture somatiche del feto. L’assenza di pianto alla nascita dovrebbe essere sempre indagata  a livello osteopatico.

Kok Weng Lim inoltre, riporta le ipotesi di autori come Hipperson (2004) e Biedermann (2005), i quali hanno suggerito un ruolo eziologico del riflesso somato-viscerale o spino-cranio-viscerale  rispetto l’incidenza di coliche nei neonati.

Per chi se lo stesse chiedendo, le risposte osservate durante il trattamento osteopatico neonatale sono difficilmente  riconducibili ad una semplice “effetto placebo” e tale precisazione è stata sottolineata da studi successivi come quello di Martelli M et al. 2014, Cerritelli  et al. 2012 e Manzotti et al. 2020. Ovviamente, non possono essere esclusi  effetti non specifici legati ad alcuni fattori come la rassicurazione, l’attenzione ed il supporto forniti dai genitori e dai caregiver in corso di trattamento osteopatico.

Sulla stessa scia, è stata recentemente proposta la teoria (vedi: McGlone Francis et al. 2017) secondo la quale, in corso di trattamento osteopatico, vi sia un possibile ruolo terapeutico da parte di una tipologia di fibre meccanosensibili di tipo c (le fibre c-tattili), a bassa soglia di attivazione e che risponderebbero in modo ottimale ad un tocco lento e delicato, con potenziali contributi significativi in merito all’efficacia delle terapie manuali.

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Dott. Antonio Pranzitelli
Fisioterapista Osteopata
TERMOLI (CB) 86039