Traduzione di Claudia Pelle
Quando e dove sei nato?
J. P. Sono nato il 25 settembre 1944, sul finire della seconda guerra mondiale, a Grenoble, in Francia, luogo in cui vivo attualmente.
Come hai conosciuto l’osteopatia?
J. P. Ero un fisioterapista e l’osteopatia non era affatto conosciuta, nessuno ne parlava.
Per rispondere a questa domanda voglio raccontarti una storia vera, a mio avviso anche piuttosto comica.
Un mio amico, anche lui fisioterapista, mi parlò dell’esistenza di una tecnica quasi miracolosa, grazie alla quale dinanzi ad un caso di scoliosi bastava “premere” al centro della colonna, sentire un rumore e la scoliosi poteva anche svanire.
Fu in quel momento che mi sono detto: “devo saper fare questo“.
Ecco il mio primo incontro con l’osteopatia.
Dunque, non ne conoscevo assolutamente nulla e quando decisi di avvicinarmici occorreva mettersi in lista d’attesa, aspettare tre anni per essere ammessi a Maidstone (nell’ European School of Osteopathy, ndr ). Ed io ero disposto ad aspettare 3 anni.
Presentai la domanda e dopo soli 15 giorni venni chiamato, mi chiesero se fossi disposto ad iniziare subito il corso poiché due persone avevano annullato la loro iscrizione. Accettai. Non avevo abbastanza soldi per pagarmi la scuola, per questo chiesi un prestito in banca che mi permise di partire per l’Inghilterra.
Con me venne Pierre Mercier, che mi aiutò a scrivere il mio primo libro.
Quindi sei partito per Maidstone, ed hai frequentato la scuola di osteopatia.
J. P. Ho frequentato part-time la scuola di osteopatia a Maidstone, all’epoca erano cinque anni di corso. E’ stato un periodo complicato, perché ci recavamo in Inghilterra in automobile, in nave, ogni tanto in aereo. Ma sorgeva sempre un problema economico, partire per l’Inghilterra non era banale come lo è ora, ed in Francia non esisteva nessuna scuola.
Era il periodo in cui i primi osteopati francesi si recavano a Maidstone per formarsi e John Whearnam e Thomas Dummer sono stati i miei insegnanti.
Chi sono stati i tuoi maestri, chi puoi considerare un tuo maestro?
J. P. Onestamente non credo di aver avuto un vero maestro, o dei grandi maestri a livello osteopatico.
Tuttavia mi è molto piaciuto vedere delle persone lavorare, come Upledger per esempio, perché aveva una bellissima mano e quando la appoggiava sul cranio di qualcuno aveva una generosità manuale che mi piaceva molto.
John Whearnam era un ottimo manipolatore, e Thomas Dummer un ottimo filosofo. Non posso dire che era un grande maestro, ma era un ottimo filosofo.
Il fatto di non aver avuto dei veri e propri maestri è stata anche la mia fortuna, perché è stato necessario lavorare.
Voglio in pratica dire che i corsi di osteopatia all’epoca non erano di altissimo livello, pertanto io e i miei colleghi abbiamo lavorato tantissimo per cercare di ottenere buoni risultati.
Non c’era nulla sul viscerale né sul craniale, c’era solo la manipolazione vertebrale e delle articolazioni periferiche, nient’altro. Abbiamo lavorato molto da soli.
Quando hai pensato di essere diventato un osteopata?
J. P. Io sono diventato un osteopata molti anni dopo la conclusione dei miei studi.
All’inizio non possedevo nessuna nozione, e anche quando ho terminato la scuola di osteopatia credevo di non aver capito un granché, ma riflettevo sempre su una cosa, sulla considerazione che tutto il corpo è importante.
A scuola invece ci insegnarono solo le manipolazioni sulla colonna vertebrale; nulla sul craniale, né sul viscerale. Così, mi ci sono voluti trent’ anni per diventare un osteopata, e solo adesso ho la sensazione di essere più osteopata di quanto lo fossi all’inizio.
All’inizio non valevo niente, non mi si poteva chiedere nulla sull’osteopatia, non sapevo cosa fosse.
Sui libri di storia dell’osteopatia, quando si parla di viscerale si dice che il viscerale sia nato con Barral.
J. P. Io non sono specializzato in viscerale, e combatterò tutta la mia vita affinché non vi sia nessuno specializzato nell’osteopatia. Perché l’osteopatia ha come concetto la globalità del corpo, e dire che si è specializzati è un errore inconcepibile.
Quando vedo persone che trattano esclusivamente il cranio o le viscere trovo che sia un disastro.
Abbiamo un concetto unitario, ed è il corpo umano. Non siamo noi a decidere, è il corpo che decide.
Sono contento di essere portatore di questo messaggio, perché quando si ha esperienza è importante riferire un messaggio. Io ho la fortuna di essere un terapista, un uomo che esercita la professione, non sono un teorico. Prima faccio pratica, poi cerco di metterci sopra la teoria.
E perché si dice che il viscerale sia nato con Barral?
J. P. Perché la gente non conosce nessun altro..
Quando sarò morto sarò molto celebre…
Ma nei libri di Still non si parla e non si fa riferimento al viscerale..
J. P. Si, ma è stato proprio Still a fornirci questo concetto della globalità del corpo, e sicuramente anche lui effettuava trattamenti viscerali, sono note infatti le sue cure di gravissime dissenterie.
Ma voglio spiegarti perché ho fatto viscerale.
Era il 1971 e un giorno feci una trattamento ad un paziente affetto da dorsalgia, ritornò dopo 3 settimane e mi disse:”sto benissimo. Si, ma non grazie a voi. Ho visto un guaritore, mi ha fatto qualcosa allo stomaco e da allora non mi fa più male“.
Naturalmente mi arrabbiai molto con me stesso e mi domandai che cosa avrà mai potuto fare questo “guaritore”.
Fu così che ripresi i miei libri di anatomia e cercai di metter le mani sullo stomaco. È stato solo perché non avevo ottenuto un buon risultato il motivo per il quale ho cercato di fare qualcosa. E per ogni organo ho poi cercato un risultato.
Mercier durante i miei inizi lavorava da me, era molto più razionale ed insieme abbiamo lavorato sul movimento. È iniziato tutto con una mano sul corpo e poi è andata avanti la teoria.
E in realtà, poiché l’osteopatia è una mia passione sono andato più lontano degli altri, perché quando si è appassionati si va più lontano, così come quando si ha un’amante appassionata e ci si consacra con il corpo e l’anima. Io mi sono consacrato corpo e anima all’osteopatia, e non me ne pento.
È grazie all’incontro con Upledger che hai iniziato ad approfondire il somato-emozionale?
J. P. Upledger mi ha insegnato una cosa, all’inizio era il cranio..
Quando hai conosciuto Upledger?
J. P. Nel 1977, a Liegi.
Sei andato tu a seguire un corso di Upledger?
J. P. Si, era Alain Abehsera che aveva organizzato il corso, avevo una vaghissima nozione del cranio, sapevo che il cranio era sulla colonna cervicale, questo era tutto ciò che sapevo.
Quindi hai inziato a studiare il craniale…
J. P. All’inizio non percepivo nulla, per molti anni non sentivo niente ed ero perplesso. Successivamente capì che il cranio classico non mi piaceva, occorrevano troppe sedute, e poi io sono un uomo d’efficacia e cercai di fare cose più precise sempre continuando a lavorare sul cranio.
Un giorno mi resi conto che ponendo leggermente la mano sul cranio sentivo una percezione diversa rispetto a quando mettevo un appoggio un po’ più forte, e solo così ho sentito ciò che c’era all’interno del cranio.
Per questo motivo, il nostro è un lavoro di sensibilità, e poi, tutto è da inventare. Ciò che faccio adesso tra 20 anni farà ridere, perché l’osteopatia evolverà ancora. Tutto è da fare, e ognuno ha la propria sensibilità particolare. La mia fortuna è che adoro l’anatomia, mentre prima la detestavo.
Ti racconto ora una storia vera. La mia prima lezione di anatomia. Ero appena uscito dal corso di filosofia, e un’altra insegnante ci stava parlando dell’osso iliaco, pensavo che parlasse dell’orecchio, sono tornato a casa con la convinzione che l’orecchio fosse piuttosto complicato. Come vedi non valevo niente, non puoi sapere quanto valessi poco.
Adesso adoro l’anatomia, colleziono vecchi libri e lo considero il mio mondo.
Mi piace tantissimo, è un piacere…
Mentre i test sull’ascolto termico da chi li hai imparati, o come ci sei arrivato?
J. P. Mi capitava che quando toccavo qualcuno avvertivo una resistenza sotto la mano.
All’epoca avevo la fortuna di lavorare al centro nucleare di Grenoble, dove ho potuto fare esperimenti sugli infrarossi e sui campi magnetici e provare che quando vi era una disfunzione si registrava parallelamente un cambiamento del campo elettromagnetico.
Affinai la sensibilità della mano, perché ciò che puoi sentire con la mano puoi sentirlo in tutto il corpo e anche fuori, la mano permette di essere molto più precisi.
Dire “lo sfenoide è bloccato” a me interessa mediamente, c’è sempre una causa per la quale la quinta dorsale è bloccata, bisogna sempre domandare al corpo in modo più profondo, e non accontentarsi di fare scricchiolare le ossa come facevamo all’inizio.
Non siamo solo manipolatori, ho sempre pensato che fosse una buona pratica, ma che non fosse sufficiente.
Quale potrebbe essere un limite nell’osteopatia?
J. P. Non ci sono limiti, ma esiste il limite umano, e sono le nostre conoscenze piuttosto povere.
È il corpo umano che è misterioso, è la vita.. perché viviamo, perché siamo qui, sono le domande fondamentali che ci facciamo quando si fa osteopatia, ci interroghiamo quale sia il senso profondo della vita.
E poi qual è il senso della vita, e qual è il senso della mia vita.
Il senso della vita io non lo capisco, il senso della mia vita, cerco di capirlo, è questo che è difficile…
L’impressione che abbiamo tutti noi quando facciamo i corsi di Barral, è che questo limite viene sempre spostato. Prima si pensava che l’osteopatia servisse per una lombalgia, poi segui un corso di Barral e scopri che puoi lavorare sull’occhio, migliorare la vista, e così via.. E allora dove arriveremo?
J. P. Ho un grave difetto, che è stato per me estremamente importante, non sono mai contento di ciò che faccio, trovo che non sono mai abbastanza bravo, e lo dico sinceramente.
Alcuni pazienti sono soddisfatti, ma lavoro e mi piacerebbe fare meglio. Non è una frustrazione, ma un desiderio. Credo che quando si fa questo mestiere bisogna aiutare la gente.
Sono stato segnato da un’esperienza con un ragazzino di 10 anni che, purtroppo, ho visto morire. Ero con lui e gli promisi di rivederlo il giorno dopo, ma mi rispose che il giorno seguente non ci sarebbe stato, ci lasciò infatti durante la notte.
Mi ha segnato tantissimo, e quando vedo queste situazioni penso che sia qualcosa di spaventoso, ed è per questo che cerco di aiutare i bambini. Per questo ho organizzato insieme a dei miei colleghi delle cure gratuite per bambini diversamente abili. Nel nostro mestiere abbiamo un dovere di generosità. Mi piace guadagnarmi da vivere, ma bisogna essere generosi, perché senza generosità la mano diventa piccola piccola.
Qual è stato un momento importante della tua vita da osteopatia?
J. P. Ogni volta che sento un corpo reagire. Ed è la sensazione di un fiore, di un bocciolo che sboccia, ho la sensazione che il corpo si apra e questo è bellissimo.
Ma non c’è stato un momento in particolare?
J. P. Beh, quello è un momento di grande gioia, perché sai che hai fatto qualcosa…
In fondo è un mestiere abitudinario, ma di tanto in tanto sappiamo che dobbiamo andare al di là della routine, e osare diciamolo è una cosa bella, perché vai un po’ oltre te stesso.
In generale ciò che non mi piace del mio lavoro di terapista e dei terapisti, è l’aspetto più materiale, che si deve superare, per avere quella generosità di cui parlavo.
Io vedo persone che danno lo stesso corso da 30 anni, e mi domando come sia possibile.
C’è qualcosa che non va in loro, non si può dare lo stesso corso da 30 anni, perché la fortuna che si può avere quando si ha esperienza è appunto superare il limite di ciò che è normale.
Quello che mi piace dell’osteopatia è che i giovani sono l’avvenire, faranno molte cose, perché gli abbiamo dato delle basi che sono più avanti rispetto a quelle che noi abbiamo ricevuto.
Noi abbiamo ricevuto delle basi minime, ma l’osteopatia si evolverà ancora.
Invece, un episodio simpatico che hai vissuto in tanti anni di lavoro?
J. P. Episodio simpatico.. ce ne sono tanti.
Ma mi ricordo sempre di un uomo malato del morbo di Parkinson, era paralizzato, e ho iniziato il lavoro con poche aspettative. Poi, immedesimandomi nella sua condizione, pensai che avrei voluto qualcuno che mi aiutasse, così ho lavorato sul cervello, pressione/depressione, e quell’uomo è uscito dal mio studio sulle sue gambe.
Non ero soddisfatto di me stesso, ero partito vinto pensando di non poter far nulla, non mi ero sforzato a fare qualcosa, e magari se mi fossi sforzato su altre persone forse avrei potuto avere altri risultati così.
Ma mi chiedevi di parlare di cose simpatiche, anche se, come hai capito, ciò che ricordo delle mie giornate sono le cose che non hanno funzionato, ed è allora che mi dico “posso lavorare di più”.
Mi piace il contatto umano, e soprattutto che la gente ci riconosca perché sanno che sentiamo le cose e che questa nostra capacità è istintiva.
Ho lavorato 8 anni in ospedale come fisioterapista, durante i quali ho iniziato a studiare l’osteopatia, e in ospedale avevo un vecchio professore, Arnaud. Era uno pneumatologo, aveva un suo sistema per ascoltare il polmone, per ascoltare il cuore, appoggiava un pezzo di legno e sentiva, facendo tra l’altro delle diagnosi formidabili, ma non piaceva all’ambiente medico perché non usava radiografie, ecografie. La gente lo prendeva in giro, invece faceva diagnosi favolose.
Questo professore mi è rimasto impresso, pensavo che avesse qualcosa di speciale, mentre molti non lo consideravano abbastanza.
Poi ho avuto la fortuna di fare molte dissezioni, per 4 anni almeno una volta alla settimana.
Arnaud aveva il senso dell’anatomia e nella sala di dissezione mi chiedeva: “Barral, il dinosauro quando è in posizione eretta usa i muscoli inspiratori annessi o principali?”, e io non sapevo rispondergli, non avevo mai visto un dinosauro, oppure mi chiedeva “il cuore di un colibrì quanti battiti ha al minuto?”, e io gli rispondevo “non lo so”, e lui: “ma lo deve sapere, lo deve sapere!!”
Era necessario sapere che i muscoli inspiratori del dinosauro erano i principali quando si trovava in una certa posizione, e soprattutto voleva che noi fisioterapisti conoscessimo meglio l’anatomia rispetto ai medici. Ora capisci come questo professore mi abbia aiutato tanto?
E mi chiedo come un uomo che era dieci volte più bravo degli altri non fosse amato.
Nel nostro mestiere siamo manuali, mentre in medicina se non hai tutta la tecnologia intorno a te non sei preso sul serio.
Io combatto perché coloro che usano la manualità vengano riconosciuti.
Ho la fortuna di curare dei medici e noto che sono ammirati quando poso le mani e sento, perché una diagnosi visiva sono tutti capaci a farla, ma una diagnosi manuale non sanno necessariamente farla tutti.
Ora, devi raccontare la storia che mi interessa di più. Quella delle tue origini, della nonna di Corato e dei tuoi parenti che sono tutti Italiani..
J. P. Mia nonna era italiana, una pugliese di Corato, era guaritrice, mentre mio nonno era un discendente di Vittorio Emanuele di Savoia. Quindi ho in me due aspetti italiani, la nobiltà e la povertà. Mia nonna emigrò in Francia per trovar lavoro, non aveva soldi e cercò di guadagnarseli in una fabbrica di pelletteria, ma i prodotti chimici la intossicarono. Ebbe comunque una figlia, mia madre, ed un figlio, che è morto in Vietnam.
La mia nonna italiana me la ricordo un po’ sorda, minuta, ma non so perché.. La adoravo, anche se non abbiamo mai comunicato tanto, a causa della lingua diversa.
Ti ha insegnato qualcosa come terapeuta?
J. P. No, mi ha insegnato a posteriori, non sapevo che fosse una guaritrice ma ho avuto dei pazienti che mi hanno detto di esser stati curati da lei, ed io rispondevo che non era possibile, mia nonna lavorava in una fabbrica di pellame.
Poi l’ho “cercata”, e sembra strano, ma mi sono messo in connessione con lei.
Era una persona importante, ma non è stata mai riconosciuta per ciò che faceva, e tra l’altro i francesi in quel periodo non amavano molto gli italiani, che anzi erano piuttosto disprezzati e chiamati “sporchi maccheroni”.
Io ho sempre difeso le mie origini, anche all’epoca quando tra francesi e italiani non correva buon sangue. Non avevo problemi a parlare della mia origine italiana, mentre c’era chi lo negava in modo sfacciato.
Tuo padre era di Genova, o di Nizza?
J. P. Mio padre era di Villefranche sur Mer, e la bisnonna di mio padre si chiamava Rita, era la sorella di Vittorio Emanuele di Savoia. Fu Rita che si sposò con un pescatore di Villefranche sur Mer, che si chiamava Barral o Barrali, non so.
Invece il cognome di tua madre? E i tuoi nonni erano entrambi Italiani?
J. P. Olivieri. Mia nonna si chiamava Maria e mio nonno Nicola Olivieri, tutti e due di Corato.
Cosa fa J. P. Barral nel tempo libero?
J. P. Adoro andare in bicicletta, e proprio perché sono durissimo con me stesso, quando vedo una montagna mi dico che devo assolutamente salire su, fino alla massima altezza possibile.
Poi mi piace sciare, suonare la chitarra, ma sono un pessimo musicista. Ho anche provato a fare un quadro, ma la gente mi ha detto che è meglio che continui ad andare in bicicletta.
Mi piacerebbe anche fare sculture, nel nostro mestiere ci piace toccare….
Poi, ho un grande desiderio quello di approfondire la paleontologia, lo studio osseo, mi ha appassionato il ritrovamento di uno scheletro di 700 milioni di anni fa, mi piacerebbe fare ricerche su questo argomento.
È vero che inizi a lavorare alle sei della mattina?
J. P. Dormo cinque ore a notte. Inizio a lavorare alle 6.30 con il primo paziente, mentre la notte mi faccio un mio programma, ciò che devo trovare.
Comunque, si, dormo poco, non mi stressa più di tanto del resto…
E a che ora termini la tua giornata lavorativa?
J. P. Lavoro dodici ore al giorno, ho una pausa di venti minuti a pranzo, ma ho iniziato a diminuire. Faccio un mese di lavoro in studio, e 3-4 giorni di corsi.
Che domanda volevi che ti facessi e che non ti ho fatto?
J. P. A che ora si mangia..?
..non so, sapere cosa non mi piace nelle persone e ti dico che non sopporto le persone che si prendono sul serio, e coloro che peccano di superbia.
Ciò che mi piace è la fedeltà, la modestia, il senso dell’autoironia, prendermi gioco di me e degli altri, ma con molta gentilezza in fondo.
Il mio peggior difetto è che quando una persona mi piace e gli voglio bene, non sono capace di dirglielo, e questo è il mio grande difetto.