Nell’ambito della bellissima iniziativa #bastatacere, vi segnalo il post scritto da Claudia Ravaldi, che ho avuto il piacere di conoscere quasi dieci anni fa e che gestisce con passione e amore il sito CIAOLAPO che vi suggerisco di consultare e di consigliare nei casi di perdita del bambino prima della nascita.
Il progetto nasce come “ribellione” alle esperienze negative derivanti dal parto: donne maltrattate e costrette a subire manipolazioni dolorose, anche quando non serve, con conseguenti traumi fisici e psichici.Proprio per questo si è diffusa la campagna #bastatacere.
Perchè sostengo #bastatacere?
Mi sono laureata in medicina in 5 anni e 10 mesi, frequentando tutti i corsi e tutti i reparti previsti. Ho incontrato migliaia di persone ricoverate, e centinaia di operatori. Poi, ho preso la specializzazione in Psichiatria e ho lavorato per 4 anni in tre diversi ambulatori e in reparto. Anche lì, centinaia e centinaia di utenti, decine e decine di “specialisti”.
A metà specializzazione, per un bel po’ di tempo, ho pensato di mollare tutto. E sapete perchè? Perchè c’era una profonda dissonanza tra ciò che volevo essere come medico e ciò che mi veniva chiesto di essere. Mi veniva chiesto di “tappare buchi”, di fare colloqui rapidi e stereotipati, di riempire milioni di fogli di dimissioni. Mi veniva chiesto di “non perdere tempo” con la gente che seguivo, di “dimettere” velocemente, “che tanto quella che vuoi farci”, di smetterla di studiare libri di psicoterapia, “che le chiacchiere non servono a nulla”. Uno strazio.
Sono rimasta, e nel frattempo ho iniziato una scuola di psicoterapia nel fine settimana, in un’altra città. Sono rimasta, illudendomi che altrove la situazione fosse migliore. Che alcuni medici fossero “solo” stanchi. Che alcuni infermieri fossero solo “troppo oberati” di lavoro. Che questa cosa che vedevo e che nulla aveva a che fare con la “cura”, con la presa in carico della persona nella sua individuale globalità, fosse un’eccezione alla regola. Pensavo che il carico di lavoro del reparto giustificasse questa povertà relazionale con gli utenti. Non capivo, non comprendevo, non giustificavo. Ma questo era.
Poi, il giorno dopo la specializzazione, arriva il momento del mio primo parto. Che è stato tremendo. Non per il dolore fisico, che è parte dell’evento e si può gestire. Ma, anche lì, per la quantità spropositata di persone stanche, indifferenti, distratte, affaccendate, del tutto incapaci di entrare in relazione con me e con tutte le altre mie compagne di sventura, trattate come deficienti.
Alla fine ce la siamo cavata più o meno tutte. Siamo tornate, tutte coi nostri figli in braccio, e tutte più o meno smembrate, come delle reduci di guerra. Ho allattato per ferma volontà di farlo, da autodidatta. Zero consulenze nei 4 giorni di degenza. Ho avuto un secondo figlio, nato morto dopo un travaglio di 4 ore, solo. Dopo la diagnosi di morte, ho dovuto rifiutare la proposta di cesareo per tre volte. Perchè proprio non ci volevano credere, che fosse meglio il parto naturale. E che in quel momento non mi servisse l’anestesia.
E no, non volevo nemmeno tornare a casa, visto che avevo le contrazioni in corso.
Abbiamo partorito in ospedale, soli. Appena è partita l’ultima spinta, l’ostetrica è uscita dalla stanza per chiamare il medico. E Lapo è scivolato sul carrellino che sta sotto il lettino. Anche lì, complice la situazione traumatica, ho visto gente più smarrita di me, incredula, distante. Gente che diceva frasi a caso, cose a caso, senza guardarmi in faccia. Gente che non capiva perché volessimo vedere nostro figlio “Meglio di no”, dicevano, “Qui non lo facciamo”, “magari solo il padre”.
Dopo, raccolti i miei cocci sparsi per ogni dove, sono dovuta andare a cercarmi i medici e le ostetriche giusti, nonostante il dolore e il giramento inenarrabile di palle per i gravi e ripetuti disservizi che io, cittadina e utente di un servizio ho dovuto subire. Sono andata, e li ho trovati. Con sollievo ho visto che “la cura” esiste ed è possibile.
Esistono operatori che sono anche “curanti”. Sono sempre troppo pochi, rispetto ai curanti non-curanti (e un po’ mi vergogno, per la categoria). Sono pochi e sono sempre in lotta con tutti quelli che ritengono invece “normale” quello che è accaduto a me e a migliaia di altre donne. Si dà la colpa “al sistema”, ai “turni” “alle carenze”. Questa è solo una parte, piccola, del problema. Perché il problema non è esterno. Non riguarda le condizioni architettoniche della struttura in cui lavoriamo, o il numero di colleghi che abbiamo intorno, o come è fatto il nostro primario. Questi problemi, esterni, vanno certo presi in considerazione, ma non è risolvendo questi problemi che risolveremo il problema dei problemi, ossia l’approccio che il singolo ha con l’utente.
Il problema di come mi pongo in relazione, di come scelgo di entrare in contatto con gli altri nasce dentro di noi. È un nostro problema e ce lo portiamo dietro come una seconda pelle, ovunque andiamo. Il problema nasce spesso quando pensiamo di avere in quanto medici o operatori sanitari di vario genere, psicologi compresi, tutti i diritti e tutti i poteri nei confronti del nostro paziente. Il problema nasce dentro di noi quando ci dimentichiamo perché abbiamo scelto di fare una stancante, complessa, avvincente professione di aiuto, e di occuparci di persone che hanno uno specifico bisogno o una precisa sofferenza, acuta o cronica che sia. Il problema nasce quando le nostre scuole e università sono in mano a persone che utilizzano il piccolo minuscolo potere che hanno per sfogare illegittimamente, tutte le loro “legittime” frustrazioni e insegnare più facilmente ciò che non andrebbe fatto, piuttosto che come fare bene o al meglio di quelle che sono le corpose evidenze scientifiche. Il problema nasce dall’immobilismo cui siamo così tanto abituati da pensare che non si possa né si debba migliorare un servizio, perché tanto, “chi ce lo fa fare”.
Il problema nasce ogni volta che si ignorano i basilari principi di comunicazione medico-paziente e le tonnellate di letteratura che dimostrano con fermezza l’importanza della relazione nella gestione degli eventi (fisiologici e non). Il problema nasce quando l’operatore si mette “contro” l’utente.
Che sia a torto, o a ragione, lo scontro non porta a nulla di buono. Alza solo i muri, e a breve i nostri ospedali sembreranno il labirinto di Dedalo, a forza di barricate. Il problema nasce quando non riconosco che il problema ce l’ho dentro. E non sparirà, se lo getto sul paziente, anzi, sarà amplificato ogni volta che un paziente, giustamente, mi restituirà con gli interessi tutta l’incuria con cui l’ho ricoperto durante una visita o durante una degenza.
Curante e curato sono due facce della stessa medaglia. Prima riusciamo a capirlo, tutti quanti noi, meglio sarà per tutti.
Per tutta questa serie dettagliata di eventi e situazioni, ho aderito come professionista, ma anche come associazione, ma anche e soprattutto come donna alla campagna #bastatacere.