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Osteopatia

Frank Willard

di

 

Quando e dove sei nato?
F.W. Nel New Hampshire, Stati Uniti, nel 1948. E cresciuto a Portland, nel Maine.

Come e perché si occupa di osteopatia?
F.W.
All’inizio conoscevo ben poco dell’osteopatia.
Sapevo solo che il padre di un mio compagno di giochi era un osteopata, che lavorava nell’ospedale del paese, ma per me era semplicemente un dottore.
Quando mi sono iscritto all’Università ero molto interessato all’anatomia, e ho frequentato anche un dottorato di ricerca. In quegli stessi anni venni a sapere che si era aperta una nuova scuola, era una scuola di osteopatia, avevo intenzione di trasferirmi, e tra l’altro sapevo anche che a livello organizzativo serviva una figura come membro esterno della facoltà. Così iniziai questo lavoro, che andò avanti per due o tre anni, e nel contempo continuai a frequentare il mio tirocinio per l’Università.
Un giorno arrivò poi la possibilità di lavorare all’università e, poiché ciò che si prospettava mi sarebbe piaciuto, decisi di andarci. La cosa che rendeva tutto particolare era che avevo svolto il mio tirocinio in una scuola allopatica nel dipartimento di anatomia, e l’anatomia per gli studenti di medicina era considerata come una barriera, che si doveva per forza superare prima di iniziare a studiare la vera medicina.
Quindi, come insegnante di anatomia, sapevo di esser considerato una barriera, un ostacolo da superare.
Al contrario delle scuole di osteopatia dove gli insegnati di anatomia vengono considerati come una delle parti integranti dello staff di preparazione, e non una barriera.
La domanda che mi sono dovuto porre era “voglio andare in una scuola allopatica, dove vengo considerato un  male necessario? oppure voglio insegnare in una scuola di osteopatia in cui vengo considerato come una parte necessaria nella formazione e nella professione? Non avevo molta scelta.”

Chi sono stati i suoi maestri di osteopatia? C’erano delle persone che voleva seguire?
F.W. Non ho conosciuto nessuno dei dottori in Osteopatia con i quali ci si potrebbe tipicamente identificare. Due sole persone hanno avuto un’influenza positiva su di me. Una l’ho conosciuta durante il mio tirocinio nella scuola allopatica, era un anatomista eccellente, un autodidatta, con una conoscenza approfondita dell’anatomia.
Quando sono andato nella scuola di Osteopatia, ho conosciuto poi Arthur Vandeberg, un osteopata patologista. Era il presidente del dipartimento di patologia della scuola di Osteopatia, la sua conoscenza era notevole e molto vasta. Ho cercato quindi di modellarmi su questa linea.
Con Vandeberg, adesso in pensione, insegno in alcuni corsi. E questa è una cosa speciale.

Mi racconti un episodio significativo o un momento importante della sua carriera.
F.W. E’ difficile.



Più di uno?
F.W.
Si. Posso però raccontarti un grande momento di svolta per me, ossia quando anni fa ho iniziato a insegnare neuroanatomia agli studenti di osteopatia. In particolare le strutture del cervello.
Questo argomento non sembrava emozionarli molto, e cercai così di catturare la loro attenzione portando in aula un caso di studio. Quel giorno decisi quale, e poi pensai di far presentare il caso da uno studente di osteopatia agli altri studenti del laboratorio dell’Università.
Proprio mentre lo studente si preparava a presentare il caso, uno dei miei alunni venne da me per raccontarmi che, la sera prima, mentre si trovava all’ospedale osteopatico si presentò un uomo con numerosi deficit neurologici. Era esattamente lo stesso caso che avevo scelto.
Allora decisi di farmi descrivere il caso sinteticamente e poi chiesi allo studente di alzarsi e di descrivere ciò a cui aveva assistito nella notte precedente. Iniziò la descrizione, tutti si mostrarono subito interessati da voler capire cosa era successo e cosa il loro compagno di studi aveva visto il giorno prima.
Li guardavo “attaccare” il caso ed iniziare ad analizzarlo, e pensai “wow, in questo modo sono riuscito ad ottenere qualcosa“.
Questo episodio ha completamente cambiato il mio modo di insegnare.
Adesso le mie lezioni sono sempre accompagnate da correlazioni cliniche, dall’utilizzo di molte immagini, perché ho capito che questo è ciò che serve di più agli studenti.
Non lo affermerei se non l’avessi visto accadere con i miei occhi.

Cosa pensa della ricerca osteopatica? E’ ben organizzata? O sembra che ognuno abbia una sua idea?
F.W. Prima di tutto non dovremmo parlare di “ricerca osteopatica”. L’intero concetto dovrebbe essere rifiutato e si dovrebbe parlare semplicemente di ricerca.
Perché è la ricerca che ha delle regole e delle linee guida, e ogni protocollo dovrebbe essere condotto secondo definite indicazioni.
Solo il campo della ricerca, ma soprattutto le modalità con cui viene condotta, possono determinare se un lavoro è interessante o meno per un osteopata.
Penso che numerosi lavori svolti dagli osteopati non siano stati ben organizzati, perché non ci sono fondi e risorse necessarie, e perché in realtà non esiste una cultura della ricerca, non ci sono gruppi di supporto.
Ci ritroviamo spesso di fronte a degli osteopati che cercano di ritagliarsi del tempo durante giornate fitte di impegni, oppure dinnanzi a degli studenti che non hanno ancora ben capito i principi base dell’osteopatia e cercano di organizzare un progetto di ricerca. Questa è la realtà, naturalmente a mio avviso.
Esistono poi anche progetti di ricerca che spesso non apportano alcun risultato.
Fortunatamente ci sono anche alcuni studi che stanno iniziando ad ottenere dei riscontri positivi.
Per esempio uno studio sviluppato sul mal di schiena lombare, oppure uno incentrato sull’otite, una ricerca quest’utima, che si poggia su criteri e conclusioni statisticamente accettabili. E’ stata infatti anche pubblicata su un giornale solitamente estremamente critico. Questo è già un buonissimo inizio.
La quantità di lavoro richiesta per entrambe queste ricerche ha necessitato non solo di un corposo lavoro di gruppo, del riscontro dei pazienti, ma soprattutto dell’uso di criteri rigidi.
Ecco il problema che deve affrontare la ricerca osteopatica, “vi fidereste di una compagnia di medicinali che effettua delle ricerche sui propri farmaci?“. Di solito questo non accade.
La ricerca che aiuterà gli osteopati deve essere fatta da osservatori non schierati, che soprattutto non abbiano alcun interesse nei risultati che devono essere presentati.
Per essere più chiaro, se si volesse testare un medicinale, e non si avrebbe alcun interesse finanziario, il procedimento sarebbe quello di organizzare un team di ricerca che effettua i dovuti controlli, e dopo aver ottenuto degli esiti porta a conoscenza i risultati ottenuti, qualunque essi siano.
Di solito questi controlli vengono monitorati attraverso un’agenzia del governo che garantisce sulla correttezza dei risultati.
Penso che gli osteopati abbiano questo problema, e penso che sia molto difficile dimostrare l’oggettività dei risultati di una ricerca, se poi va pubblicata nel tuo piccolo giornale.

Quali sono le strade da approfondire e da scoprire?
F.W.
Ci sono ancora numerose strade da scoprire.
Sono convinto che quasi tutte le tecniche richiedono un’efficacia dei risultati, e alcuni di questi sono stati ottenuti attraverso la chiropratica o la medicina manuale. Queste sono le discipline che stanno iniziando a collezionare risultati e la professione osteopatica deve adeguarsi a questo metodo, assoggettando molte delle sue tecniche proprio all’efficacia dei risultati. Questo è ciò che funziona.
Tra le strade che richiedono molta più attenzione, e questo è molto incoraggiante, vi è quella del concetto dei movimenti ritmici nel corpo. Studi recenti ci hanno fornito i primi metodi, molto oggettivi, per  registrarli. E’ stato utilizzato in questo caso una macchina doppler laser per registrare i ritmi nel corpo, per poi poter confrontare l’abilità dell’operatore con la macchina. Questo è un bellissimo esempio di ciò che bisogna fare nella professione osteopatica.
Quello che si sta riscontrando è se l’operatore manuale sia capace di percepire un ritmo che la macchina registra. Questo è il metodo di ricerca da seguire, ossia porsi un obbiettivo.
Questo metodo tuttavia richiederà dei test sofisticati per arrivare un giorno ad affermare “si, la diagnosi palpatoria è accurata“. Non possiamo considerarla accurata solamente perché tutti affermano che lo sia. Deve essere testata con qualcosa. In altre parole con un indice ragionevolmente non schierato.

Qual è la situazione dell’osteopatia in America e che differenza c’è rispetto a quella europea?
F.W.
Quando gli studenti di osteopatia lasciano le Università negli Stati Uniti, hanno la possibilità di  essere considerati dei medici completi, il che significa che sono stati formati sia con tecniche di medicina manuale che con tecniche farmaceutiche e chirurgiche.
Cosa molto diversa è invece la preparazione europea, ossia avere un medico a cui insegnare non solo semplicemente delle tecniche manuali, ma anche una nuova visione olistica del corpo, i benefici delle dinamiche fluide, e infine insegnare come il sintomo che vedono nei loro pazienti non è la malattia.
Noi sappiamo che il sintomo è il corpo che reagisce alla malattia. Quindi ciò che si vede non è la malattia, ma la persona che sta rispondendo alla malattia.
Quindi, invece di insegnare semplicemente a trattare la malattia, per esempio rimuovere un tumore, dobbiamo insegnare a capire come il corpo stia affrontando questa disfunzione.
Cosa è possibile fare per aiutare il corpo ad affrontare un tumore? Oltre che rimuoverlo?
Tutto si sintetizza nella differente prospettiva che viene insegnata allo studente, e nella loro comprensione olistica del funzionamento del corpo.
L’essenza di un osteopata è di aiutare il corpo a ritornare in salute.
Prima di tutto è fondamentale non perdersi ad esercitarsi sulla tecnica per non dimenticare di interrogarsi sugli effetti di una malattia sul corpo.
Questo approccio ci aiuterebbe a comprendere la patologia della malattia e il modo in cui la malattia sta attaccando il corpo, solo così possiamo capire il modo con cui far tornare quel corpo nelle sue condizioni migliori e ottimali. O perlomeno al meglio che si possa ottenere.
Concludo dicendo che la grande differenza è che negli Stati Uniti il loro tipo di approccio al paziente fornisce un modo per capire meglio la forza invasiva della malattia e un modo per fare tornare uno stato di salute. Il lato negativo è molto ovvio, molti prendono semplicemente l’approccio medico e lavorano come medici allopatici. Quindi è una lama a doppio taglio, perché in Europa ciò non accade perché si sceglie di studiare l’osteopatia.
Penso che la cosa ideale sarebbe poter prendere l’approccio alla comprensione della malattia e alla comprensione delle risposte del corpo e inglobarlo nel modello europeo, cioè quello di studiare con le mani e con le abilità fisiche.

Quali sono, secondo lei, i limiti dell’osteopatia?
F.W.
I limiti dipendo praticamente dall’approccio.  Un buon osteopata deve avere una buona conoscenza del corpo, dell’attività omeostatica, di come il corpo risponde allo stress e alla malattia, in sintesi di come il corpo si comporta.
In realtà ci sono veramente pochi limiti riguardo a ciò che si può fare per aiutare qualcuno.

Quali sono i vantaggi dell’osteopatia?
F.W.
Penso che i vantaggi siano nelle dinamiche, nelle aspettative che ha un osteopata verso il suo paziente e viceversa.
Pensate ad un paziente che è passato per un medico generico, un chirurgo ortopedico, o un neurologo e che ad un certo punto si sente dire: “guardi, può prendere queste pastiglie ma non so se funzioneranno. Non so bene cosa non vada. Deve vedere qualcun altro, perchè io non posso risolvere questo problema“.
Gli osteopati al contrario “toccano” subito il paziente, ascoltano cosa c’è che non va, e solitamente  dicono “si, lei ha questa cosa, ho visto un paio di altre persone con lo stesso problema, ecco, proviamo questo trattamento“. Gli osteopati aiutano il paziente a capire che c’è qualcosa che non va, e ciò che possono fare è aiutare il corpo a convivere con una malattia che nessuno riuscirà a fare sparire completamente, ma intanto il corpo riuscirà ad abituarsi, e l’osteopata darà al paziente delle aspettative che sono d’aiuto al paziente nell’affrontare la malattia.
Ci sono delle cose che si posso fare per aiutare, questo è un approccio molto diverso.
Quindi penso che le dinamiche con il paziente siano la cosa che da all’osteopata un così grande vantaggio. Si può toccare e capire cosa succede nel corpo del paziente, mentre i medici tradizionali dicono “lei ha questa malattia, questa è la cura, grazie mille” e non hanno questa dinamica che è un’enorme componente per la salute del paziente.

Possiamo dire che sua moglie è una famosa osteopata. Come fate a conciliare la vita da osteopati con la vita di ogni giorno? Comunicate solo via e-mail, etc?
F.W.
Ci lasciamo dei messaggi in cucina!
Facciamo lo stesso lavoro, ma spesso lei opera su alcuni aspetti ed io su altri. E’ bello quando possiamo stare insieme dandoci forza a vicenda. Ho imparto tuttavia che è fondamentale rispettare l’altra persona quando deve lavorare per un libro, per un articolo, o per preparare una lezione.
Ci riesco sempre? Assolutamente no.

Sua moglie insegna osteopatia?
F.W.
Si, come me insegna all’University of New England College of Osteopathic Medicine (UNECOM)

Che domanda voleva che le facessi che non le ho fatto?
F.W.
Penso che siamo arrivati alla fine!

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