Quando, anni or sono, scelsi come argomento della mia tesi “I blocchi nella pratica Ostopatica” non avrei pensato di ricorrervi così a lungo nel tempo e così frequentemente. Per quanto riguarda la sua descrizione rimando il lettore alla consultazione della mia tesi che troverà all’interno dello stesso portale. In questo mio scritto vorrei, invece, soffermarmi sulle considerazioni della sua applicazione nella mia esperienza, fino ad oggi.
Delle tante tecniche apprese a scuola, solo alcune ho continuato a riproporle fedelmente, così come ricevute; altre le ho abbandonate; le rimanenti sono state personalizzate nel corso della pratica. I blocchi appartengono a questa terza categoria.
La progressiva crescita delle mie competenze, unite ad una maggior consapevolezza personale, mi hanno nel tempo portato a cambiare talvolta le regole e le tecniche apprese ai corsi di osteopatia, in qualche misura a rivisitare il loro ruolo. Il mio approccio alla persona ed alle sue problematiche, benchè sia all’insegna della presenza e del rispetto, il motto “entro ed esco in punta di piedi”, possiede altresì alcune connotazioni giocose. Non vorrei essere frainteso: uso il termine gioco non in modo irriverente per chi me le ha sapientemente e pazientemente insegnate e neppure sono carente di compassione verso le difficoltà delle persone, piuttosto utilizzo l’arte del gioco nella mia visione e nella relazione, rendendomi disponibile all’improvvisazione e alla trasformazione delle regole e delle modalità. Dentro ogni movimento, per me carico di intenzione, può nascondersi una piccola/grande acrobazia.
Unautentica partecipazione, nel rispetto della nostra natura profonda, è sempre legata ad una sensazione di libertà psicofisica e nutre la creatività: mia e del cliente.
Il risultato, mai scontato, è in certi casi sorprendente per entrambi, forse anche in relazione a questa libertà.
Mentre, come osteopata, mi sento libero di esprimermi tramite il tocco, cerco di mettere a proprio agio il cliente e di aiutarlo a permettersi la medesima, libera possibilità di relazionarsi verbalmente con se stesso, o di percepirsi ed ascoltarsi interiormente per mezzo del contatto che ho sul suo corpo.
La tecnica dei blocchi riveste un’importanza particolare proprio per questa “possibilità di apertura” che crea con e nella persona. Questa sua qualità, la sua semplicità e la sua efficacia, sono i motivi per i quali ancor oggi scelgo di utilizzarla. Essa ed i minuti di dialogo che dedico all’incontro, focalizzati su canali molto spesso analogici, concedono, a me e alla persona, un accesso facilitato alla parte autentica di sè, quella priva delle maschere, delle corazze corporee, dei pregiudizi. Ciò che è costruito intorno a “quello che gli altri si aspettano da noi”, o “quello che facciamo per piacere agli altri”, lascia il posto all’esperienza del “ciò che sono”, “ciò che voglio”, “ciò che vorrei diventare”.
Penso che dentro una tecnica che attua strategie di modifica delle oscillazioni posturali fini si nasconda un mirabolante strumento che permette una espansione di coscienza.
Quando la persona si trova con i blocchi appena istallati, e per tutta la durata del loro posizionamento, mando l’indicazione verbale di:
“…portare dolcemente attenzione al respiro, e di esentarsi dal compiere qualsiasi movimento volontario con il corpo…”
Con questo termine voglio indicare un atteggiamento attivo di osservazione di sé nell’atto di respirare, un po’ come se la persona potesse diventare spettatore interno di questo atto fisiologico.
Se considero il respiro diaframmatico come la manifestazione fisica esteriore di un atto rinnovato di Respiro spirituale interno, è un po’ come poter attingere alla fonte che ha dato origine alla vita. Se questa scintilla ci ha generati…il ritrovare la sua fonte può anche ri-generarci.
Ho verificato che questa semplice consegna, qualora venga eseguita, è già sufficiente a permettere cambiamenti fisici considerevoli sulla funzione respiratoria diaframmatica (normalmente: dilatazione del tempo e dell’ampiezza dell’espiro, che può essere sperimentato con emozione anche dalla persona stessa), sul ritmo e sull’ampiezza della respirazione primaria, sul raggiungimento di un neutro accettabile e sull’espansione di coscienza.
Quando nel mio studio giungono persone fortemente identificate in stati di collera, di insofferenza e di ostilità, ho imparato ad utilizzare i blocchi anziché tante parole ed energia: molto frequentemente, infatti, questi stati si modificano, attraverso una considerazione più ampia che il cliente riesce ad avere di sé, con un riesame delle situazioni che hanno scatenato queste emozioni, e, per finire, con un maggior amore per sé e per gli altri. Dopo questa forma di “centramento”, anche il seguito del trattamento osteopatico trova un percorso più appianato.
La tecnica possiede quelle caratteristiche che ritengo fondamentali nella relazione di aiuto alla persona:
Per concludere, vorrei ritornare all’impiego più strettamente fisico di questa tecnica, allargandone il suo utilizzo rispetto alle indicazioni suggerite nella tesi. Da allora, ho avuto modo di verificarne l’efficacia anche su persone che avevano problemi di cicatrici reattive in seguito a interventi di ernia discale anche risalenti a diversi anni prima. E’ presumibile che, se l’intervento chirurgico è stato eseguito in uno stato di emergenza, anche la situazione edematosa locale è stata importante, con la conseguenza di un numero maggiore di aderenze e di complicazioni nella sua risoluzione: in questo caso la tecnica dei Infatti, la possibilità di toccare contemporaneamente occipite e sacro che si ha nella categoria O.S. (persona in posizione prona) permette, dopo aver lasciato trascorrere alcuni minuti con i blocchi che portano ad un riallineamento degli assi di mobilità del sacro, di poter effettuare, con entrambe le mani sulle suddette ossa, una proficua e delicatissima trazione lungo l’asse della colonna.
Durante tutta l’esecuzione è fondamentale che l’osteopata mantenga l’attenzione focalizzata sul sacro che “galleggia” tra le ossa iliache e la Dura Madre nella sua globalità. Questo, ci permette di localizzare precisamente il punto della cicatrice fasciale, facendola scorrere lentamente in senso longitudinale fino alla conseguente liberazione, che si riuscirà a percepire sotto le mani e ci indicherà il momento corretto per lasciare andare la struttura.