Il Lien Mécanique Ostéopathique (LMO) è un metodo osteopatico di diagnosi e trattamento elaborato negli anni ’70. I principi fondamentali di questo approccio sono stati presentati in un primo libro1 ed il metodo ha rapidamente suscitato la curiosità di molti osteopati in Francia. A partire da questa tappa, Paul Chauffour ed Éric Prat hanno lavorato insieme all’evoluzione ed all’insegnamento del LMO. Le loro ricerche hanno permesso la scoperta di nuovi campi di applicazione in osteopatia (linee di forza intra-ossee, diastasi articolare, arterie, ecc.) ed i risultati dei loro lavori riscontrano attualmente un crescente interesse nella comunità osteopatica internazionale.
Numerosi testi di riferimento2 sul Lien Mécanique Ostéopathique sono già stati pubblicati. Il metodo del LMO è contemporaneamente tradizionale e moderno:
– Tradizionale, in quanto si poggia risolutamente sui concetti fondamentali dell’osteopatia stilliana: «la struttura governa la funzione», «cercate la causa, trattatela e lasciate fare», «la regola dell’arteria è assoluta», « la libertà del sistema nervoso», ecc.
– Moderno, in quanto propone tecniche innovative e approccia domini poco o per nulla conosciuti in osteopatia classica. Come tutte le medicine sistemiche, il LMO considera l’essere umano in tutta l’importanza al tema del lien mécanique (collegamento meccanico) – collegamento fasciale, collegamento fluidico e collegamento neurologico.
Il metodo del LMO si basa su tre concetti essenziali – teoria – e tre tecniche originali – applicazione pratica della teoria.
La lesione totale viene intesa come l’insieme delle lesioni osteopatiche che presenta un essere vivente. Questa lesione totale, più che la semplice somma delle lesioni, rivela in modo palpabile tutta la storiapassata, presente ed a venire del paziente, una storia inscritta nei tessuti del corpo indipendentemente dalla sintomatologia, cosciente o meno, espressa o meno, dallo stesso.
Impieghiamo volontariamente il termine preciso di lesione osteopatica piuttosto che quello, convenzionale, di disfunzione somatica. Per noi, la lesione osteopatica è una realtà anatomo-patologica ossia una alterazione del tessuto connettivo installatasi secondo il processo di una cicatrice: infiammazione, fibrosi, sclerosi.
Il tessuto connettivo leso perde la sua elasticità, e questo può eventualmente essere all’origine di un certo numero di disfunzioni come delle restrizioni di mobilità, del dolore, o diversi disturbi localmente a distanza. Non c’è fumo senza fuoco ma non dobbiamo confondere lesione osteopatica, la causa, e disfunzione somatica, la conseguenza.
Come il fuoco dona del fumo, l’alterazione della struttura genera delle disfunzioni somatiche. In caso di incendio, bisogna spegnere il fuoco, e non il fumo. In un percorso osteopatico eziologico, è dunque la lesione tessutale che bisogna innanzitutto ricercare e trattare, e non la disfunzione somatica. Per diagnosticare la fissazione tessutale che caratterizza la lesione osteopatica, abbiamo elaborato una tecnica particolare, il test di messa in tensione.
La messa in tensione è un gesto osteopatico destinato ad apprezzare l’elasticità tessutale di un determinato segmento. I test di messa in tensione si effettuano sia in pressione, sia in trazione, al fine di valutare lo stato di tensegrità di tutte le strutture connettive del corpo umano, dalle più dense alle più fluide: ossa, articolazioni, involucri viscerali, guaine nervose, vasi sanguigni, ecc. Il test di messa in tensione è un gesto dolce, non invasivo, che permette la diagnosi rapida delle lesioni osteopatiche, qualunque sia la loro localizzazione. Con il test di messa in tensione, noi abbiamo immediatamente sotto la mano due risposte possibili:
– la morbidezza e l’elasticità dei tessuti, che sono testimoni di una struttura libera (test negativo)
– la resistenza netta e marcata dei tessuti, che ci indica la lesione osteopatica (test positivo).
Test di messa in tensione di un segmento vertebrale per pressione sull’asse della spinosa.
Non bisogna confondere la resistenza di una struttura con la restrizione di mobilità o l’aumento della densità dei tessuti che possono, ma non sempre, accompagnare la lesione osteopatica. La resistenza del tessuto connettivo diagnostica bene allo stesso modo il blocco di un articolazione, la rigidità di una linea di forza intra-ossea, la fissazione di un viscere, la tensione di un’arteria che l’indurimento di un punto neurale. Il principio del test tessutale resta sempre lo stesso qualunque siano le strutture connettive valutate, questo dona molta coerenza all’esame osteopatico.
Tra l’elasticità normale di una struttura e la resistenza netta, abbiamo uno stato intermedio che possiamo chiamare frenazione o la renitenza tessutale. In questo caso, la struttura resiste alla pressione ma per inerzia più che per resilienza. Per una mano esercitata, la lesione di frenazione è risentita come passiva mentre la lesione osteopatica vera si esprime piuttosto come una resistenza attiva. Essendo attiva, questa resistenza tessutale che caratterizza la lesione osteopatica dimora nella vita stessa. In questo senso, la rigidità del cadavere non è testimone di una «lesione totale» ma, al contrario, di un’assenza di lesione osteopatica.
I test di messa in tensione che proponiamo si sono dimostrati oggettivi, affidabili, precisi e riproducibili3.
Con questi test di messa in tensione, valutiamo sistematicamente il paziente attraverso 8 unità funzionali. In pratica e nell’ordine dell’esame, consideriamo:
Le 8 unità funzionali
Cinque di queste unità corrispondono a domini classici dell’osteopatia: rachide, torace, arti, cranio e viscerale. Le altre tre unità sono dei reticolati che percorrono e rilegano questi cinque territori anatomici: le linee di forza intra-ossee, le arterie ed i nervi. Ciascuna di queste otto unità funzionali è valutata secondo un protocollo molto ben codificato di test chiamati i test di base. Questo è l’esame sistematico ed inaggirabile del nostro paziente ad ogni consultazione. Se necessario, in funzione della sintomatologia o di scelta d’investigazione dell’operatore, questo bilancio osteopatico di base può essere completato da test detti opzionali. In tutti i casi, insieme delle lesioni osteopatiche trovate durante l’esame generale (test di base ed eventuali test opzionali) culminerà in una diagnosi chiara e precisa della lesione totale del paziente.
– Esame sistematico delle 8 unità funzionali con i test di messa in tensione
– Diagnosi della lesione totale
É la lesione osteopatica più marcata che presenta il paziente al momento dell’esame. Tutte le lesioni osteopatiche di una persona non hanno la stessa storia ne la stessa incidenza clinica. Il termine di lesione primaria ha per noi una definizione precisa e concreta. Non è per forza la più anziana (prima lesione) o la più manifesta (lesione sintomatica) ma quella che, comparativamente alle altre lesioni, evidenzia il più forte grado di resistenza tessutale. Questa lesione primaria costituisce il principale paletto della lesione totale e sarà sicuramente da trattare in priorità al fine di liberare efficacemente tutte le lesioni secondarie che da essa dipendono. In pratica, bisogna poter gerarchizzare tra loro tutte le fissazioni identificate con i test di base dell’esame generale.
Le lesioni osteopatiche saranno allora classificate in secondarie, dominanti (la più forte restrizione di un’unità funzionale) e primaria (la più forte restrizione di tutte le unità funzionali).
Per permettere questa diagnosi differenziale delle lesioni osteopatiche, utilizziamo un’altra tecnica interessante e caratteristica della metodica del LMO, il test in bilancia inibitrice.
Il test in bilancia inibitrice consiste nel comparare due lesioni osteopatiche al fine di definire quale tra le due si rivela la più importante. Per fare ciò, l’osteopata effettua una messa in tensione simultanea di due fissazioni. Si produrrà allora un fenomeno curioso: una delle due lesioni si rilasserà sotto la mano mentre, inversamente, l’altra resisterà. Questo riflesso inibitore è un meccanismo fisiologico costante e riproducibile, anche se una sua spiegazione scientifica è tuttora da mettere in evidenza. La risposta al test è sempre chiara ed immediata, anche se, come tutte le tecniche osteopatiche, richiede un po’ di affinamento manuale e di esperienza. Il test in bilancia inibitrice si applica senza eccezioni a tutte le strutture del corpo. È così possibile comparare tra loro due lesioni vertebrali, ma anche una lesione vertebrale con una lesione viscerale, una lesione craniale con una lesione neurale, ecc.
Esempio di test in bilancia inibitrice tra C7 e l’iliaco destro. La lesione che lascia è considerata come secondaria, quella che resta, come dominante.
All’interno di ciascuna delle otto unità funzionali esaminate, il test in bilancia inibitrice, permette, per eliminazioni successive delle lesioni secondarie (quelle che lasciano), di determinare la lesione dominante (quella che resta). Arriveremo così a determinare la lesione dominante di ciascuna unità vertebrale, toracica, periferica, craniale, viscerale, ecc. Ultima tappa dell’esame consiste nel mettere in bilancia tra loro queste lesioni dominanti per giungere, seguendo lo stesso procedimento selettivo di eliminazione delle fissazioni che cedono, alla diagnosi de «la dominante delle dominanti»: la lesione primaria.
– Gerarchizzazione delle lesioni osteopatiche per mezzo del test di bilancia inibitrice
– Diagnosi differenziale delle lesioni secondarie, dominanti e della lesione primaria
Dopo la fase diagnostica viene, necessariamente, quella del trattamento. Esistono, in osteopatia, unagran varietà di tecniche di aggiustamento, ognuna con i suoi vantaggi, i suoi inconvenienti e le sue controindicazioni. Per il nostro modello operativo, abbiamo sviluppato una tecnica originale, molto caratteristica del nostro approccio, il recoil.
Il nome recoil origina dall’inglese recoil [re-koyl´] significante rimbalzo, arretramento rapido
La tecnica del recoil è poco conosciuta ed il termine non figura nemmeno nel Glossary of osteopathic terminology, la nomenclatura ufficiale dell’American Association of Colleges of Osteopathic Medicine (AACOM) che definisce tutte le tecniche osteopatiche.
Per contro sappiamo che A.T. Still utilizzava alcune volte una tecnica la cui descrizione corrisponderebbe al recoil. La referenza che lo attesta ci viene dagli archivi del Giornale della scuola di Kirksville diretta da Hildreth, e la storia è stata relazionata da Steve Paulus DO (USA) nella sua prefazione del libro Lien Mécanique Ostéopathique, artères et système neuro-végétatif.
Il recoil fa dunque parte dell’eredità trasmessaci dal fondatore dell’osteopatia, una tecnica minore ripresa occasionalmente anche da qualche suo successore (A. Becker, R. Miller) ma praticamente finita nell’oblio. Dalla sua parte, il recoil che Paul Chauffour a sviluppato negli anni 1977-1979 è all’inizio una adattazione ispirata del toggle-recoil dei chiropratici e del thrust degli osteopati.
Paul Chauffour ed Éric Prat hanno in seguito fatto evolvere in modo originale questa tecnica. Attualmente, numerosi osteopati formatisi con il LMO utilizzano regolarmente, sovente in modo esclusivo, il recoil. Un successo che si conferma da più di 30 anni e che ridona parole di nobiltà a questa bella tecnica. Possiamo descrivere il recoil come una tecnica balistica in circuito aperto con tre tappe.
Efficacia
La normalizzazione della lesione è immediata, sentita subito dal paziente e verificabile con il test di messa in tensione, che diviene negativo. Il risultato è duraturo nel tempo, naturalmente se la diagnosi della lesione da trattare è stata esatta.
Semplicità
Come l’abbiamo descritto più in alto, il gesto è semplice e logico, nella continuità del test di messa intensione. La tecnica può essere utilizzata anche all’esterno dello studio (domicilio, campo di gioco) senza necessitare di materiali speciali.
Rapidità
Il recoil permette di correggere molto velocemente non importa quale lesione osteopatica. Grazie a questa rapidità d’intervento, il trattamento in se stesso prende meno del 10% del tempo della consultazione e l’essenziale della nostra pratica resta consacrata al più importante, l’esame osteopatico.
Sicurezza
Essendo che non c’è alcuna manipolazione forzata e nemmeno una mobilizzazione del paziente, il gesto garantisce al paziente una sicurezza ottimale. Tutti i casi acuti, i pazienti fragili, le donne incinte, le strutture dette a rischio come le vertebre cervicali o il cranio del neonato, le conseguenze di traumi o chirurgia, ecc. possono essere serenamente presi in carico.
Confort
I pazienti apprezzano notevolmente il recoil e non hanno alcuna apprensione nel farsi trattare. È altresì una tecnica gradevole e confortevole per l’operatore.
Il recoil agisce verosimilmente a livello dei meccanorecettori che mantengono la fissazione dei tessuti. Questi meccanorecettori sono sensibili a tutti i parametri indotti dal recoil. I corpuscoli del Ruffini rispondono alla pressione e quelli del Golgi alla messa in tensione (primo tempo del recoil). I corpuscoli di Pacini reagiscono, loro, all’accelerazione (secondo tempo del recoil) ed alla decelerazione (terzo tempo del recoil) del gesto. Il recoil si applica senza restrizioni a tutte le strutture del corpo umano: ossa ed articolazioni, visceri, arterie, nervi, ecc. È applicabile al neonato come alla persona molto anziana. Possiamo con gli stessi risultati anche trattare gli animali. É una tecnica universale che l’osteopata può utilizzare in modo esclusivo o in complemento al suo armamentario abituale.
Il recoil si rivela finalmente un gesto osteopatico ideale perché combina la correzione strutturale (azione meccanica) e la normalizzazione funzionale (azione neurologica) della lesione osteopatica. È una tecnica che può conciliare operatori provenienti da orizzonti diversi e permettere di ritrovare un osteopatia dove l’opposizione tra strutturale e funzionale non ha più nè luogo nè ragione di esistere.
Esempio: recoil applicato sul nervo vago alla sua uscita dal cranio
Messa in tensione per trazione sul nervo
Impulso diretto verso il basso, nel senso della correzione
Arretramento delle mani con rilascio della struttura
La scelta della tecnica di correzione è stata data, restano tre domande essenziali per quanto riguarda la procedura di trattamento. Dove iniziare, come continuare e quando arrestare un trattamento osteopatico?
Sono le questioni che si pongono tutti gli osteopati coscienziosi per uscire dalla routine molte volte limitata da protocolli di trattamento o evitare i possibili ingarbugliamenti dovuti alla sola intuizione.
– Prima domanda: dove iniziare il trattamento?
– Risposta: con l’aggiustamento della lesione primaria.
Correggendo prima di tutto la lesione primaria, la più forte restrizione tessutale presente, constatiamo che, immediatamente, un gran numero di lesioni secondarie si normalizzano da sole. È sicuramente qui tutto l’interesse di aver dedicato del tempo ad una diagnosi gerarchizzata in quanto, con un solo aggiustamento e dunque una grande economia di mezzi che otteniamo la liberazione di numerose lesioni secondarie. L’osteopata procede così con il minimo necessario piuttosto che il massimo sopportabile, ciò che costituisce in pratica un reale guadagno di tempo e di efficacia.
– Domanda 2: come continuare il trattamento osteopatico?
– Risposta: prendendo in considerazione le lesioni osteopatiche che restano dopo la correzione della lesione primaria
Il trattamento specifico della lesione primaria normalizza a distanza un gran numero di lesioni secondarie. Però, sovente persistono delle fissazioni che non hanno “lasciato” in quanto dipendenti da un’altra catena lesionale. A questo punto, la lesione totale non è stata ancora completamente trattata. L’osteopata deve dunque verificare quali sono le lesioni ancora presenti, quindi metterle in bilancia per arrivare ad una nuova dominante dello schema lesionale persistente. Questa lesione dominante sarà quindi “aggiustata” con un recoil. Dopo questa seconda correzione, l’operatore valuterà se restano ancora lesioni da prendere in considerazione. Agirà come precedentemente: gerarchizzazione e trattamento con il recoil della dominante che resta.
– Domanda 3: quando arrestare il trattamento osteopatico?
– Risposta: quando tutte le lesioni osteopatiche del paziente sono state, direttamente o indirettamente, corrette.
Nel momento in cui non resta alcuna fissazione, la lesione totale è considerata come normalizzata, e ciò conclude in principio il trattamento osteopatico. È anche possibile, se il problema manifestato dal paziente non è già stato incluso nella lesione totale, finire la seduta con un aggiustamento sintomatico di tutte le restrizioni minori in relazione con il motivo di consultazione.
Con il LMO, il trattamento specifico deriva così, logicamente, dalla diagnosi osteopatica stabilita con i test e non da una scelta basata sulla diagnosi medica, dall’interrogatorio del paziente o da una decisione arbitraria del terapeuta. Esempio di trattamento di un paziente arrivato in consultazione per una sciatica destra: dopo l’esame generale e la gerarchizzazione delle lesioni osteopatiche trovate:
– Trattamento specifico delle lesioni primaria e dominanti con tecnica del recoil
– Normalizzazione della lesione totale
Il LMO rispetta contemporaneamente i concetti della medicina osteopatica e quelli del pensiero sistemico: pensare globalmente (esame generale) ed agire localmente (trattamento specifico). L’osteopatia è una medicina meravigliosa ma anche difficile ed esigente. Per fare in modo che il trattamento sia efficace, bisogna iniziare con una diagnosi corretta. Di fronte alla problematica particolare e sovente complessa di ciascun paziente, al di là delle capacità tecniche e delle conoscenze dell’operatore, sarà in fine il metodo che farà la differenza. In questo senso, un processo diagnostico chiaro, logico e rigoroso, come quello proposto dal LMO, deve permette un trattamento più preciso e, di conseguenza, dei migliori risultati clinici.